"Perchè amo il Rito tradizionale?" In risposta ad un sacerdote che mi
rivolgeva tale domanda, ho scritto una risposta piuttosto articolata,
che oso credere meritevole di lettura e che presento qui arricchita
da alcune note.
«Innanzitutto, padre, la ringrazio per
la serena curiosità priva di pregiudizi: ciò le rende veramente
onore dal punto di vista e umano e pastorale.
Per parte mia vorrei fugare l’idea
che il rito antico sia un rifugio dalla cattiva celebrazione del rito
nuovo. La scelta dell’antica liturgia avviene per ragioni che
ritengo fondate sull’oggettività del rito, che lo portano quanto a
corrispondere o meno a delle preferenze personali di base che sono
innate o sviluppate lungo la crescita della persona, e lo scelgo a
parità di correttezza e solennità della celebrazione: ad una messa
solenne in latino e canto gregoriano celebrata secondo il messale di
Paolo VI dall’abate di Solesmes preferisco la stessa messa
celebrata secondo il messale antico dall’abate del Barroux o di
Norcia, alla messa bassa (recitata) celebrata devotamente in una
intima cappella da un bravo sacerdote preferisco quella tridentina
celebrata allo stesso modo dallo stesso bravo sacerdote.
Rinvengo nel rito antico due ordini di
aspetti che lo rendono migliore: quelli dal punto di vista del
contenuto del rito (trovo quindi che il rito antico – messa,
ufficio divino, sacramenti, sacramentali – permetta una più ricca
e completa esposizione dei misteri divini e dei tesori della
spiritualità occidentale: ciò non significa che il rito nuovo ne
sia del tutto privo, ma solo che ne sia meno ricco), e quelli dal
punto di vista della sua adequazione all’intima natura umana. Il
rito antico (di nuovo, dalla messa ai sacramentali) ha una perfetta
organicità che, essendosi sviluppata lungo almeno quindici secoli, è
capace di parlare a quegli aspetti costanti e profondi della natura,
che non cambiano lungo il corso della storia (per questo, credo, la
liturgia tradizionale attrae molti giovani che, come me quando lo
conobbi la prima volta, non ne avevano mai sentito parlare prima, e
magari non sono nemmeno cattolici o cristiani tout court).
Un esempio di questi aspetti è il
reiterarsi in breve tempo (un anno in luogo dei tre della liturgia
riformata da Paolo VI) di una liturgia ricca e varia, ma sempre
uguale in una danza cosmica attorno al sole che è Cristo[1]: tutti
gli anni so ormai in anticipo quali testi verranno cantati in chiesa
a Pasqua, a Natale, quella tale domenica della quaresima o
dell’avvento, conosco ormai a memoria – gli anglofoni direbbero,
con più suggestiva espressione, a cuore: by heart – le antifone
della messa, la loro musica gregoriana, ed il loro rapporto con la
pericope scritturale[2], conosco quali salmi sono cantati o recitati
nell’ufficio in quella data ora e in quel dato giorno della
settimana – il salterio essendo ripartito sue sette invece che su
ventuno giorni – quali sono le lezioni dei mattutini ed i loro
responsori. Questo non per dire che conosco a memoria i libri
liturgici (non è vero, anche se molte antifone effettivamente le
ricordo), ma che questa costante ripetizione mi permette di vivere ed
essere immerso in una liturgia che diventa presto parte dello stesso
respiro della mia anima, che si fa carne e sangue, che è veramente
parte della mia vita ed una parte famigliare, riconosciuta, amata:
vivo attraverso l’anno liturgico nello stesso modo in cui,
percorrendo una strada che mi sia abituale fin dalla nascita,
riconosco ogni cantone, ogni campanile, ogni albero, stagno o roggia
che incontro.
Un altro esempio è quello che nel bel
libro del 1990 scritto dal musicista cattolico americano Thomas Day,
Why Catholics can’t sing[3] l’autore chiama “l’accadere del
rito”[4]: esso è oggettivo ed impersonale nel suo avere luogo,
presente davanti ai miei occhi nel presbiterio illuminato, non
dipende dalla mia volontà, dalle mie preferenze, dalla mia
partecipazione (è ovvio, come ha appena letto, che vi partecipo
eccome, ma esso avverrebbe lo stesso, anche se io non ci fossi, anche
se radicalmente io non fossi: una sensazione simile non mi è mai
capitata col rito nuovo, pur sapendo che anch’esso è liturgia e,
metafisicamente, ha gli stessi caratteri di oggettività di quello
antico). In questa liturgia indipendente e libera dalle nostre umane
miserie intuisco la partecipazione della Chiesa trionfante, degli
angeli e dei santi, e la comunione con tutta la Chiesa militante
diffusa nel mondo[5]».
(di F.Righini)
Versione in inglese dell'articolo: QUI
NOTE
[1] Questo è messo in risalto
dall’incentrare l’intero procedere della liturgia in una
rivoluzione della terra attorno all’astro lucente, in un solo anno
solare, invece che in tre, una modifica resa necessaria dalla pretesa
di una maggiore ricchezza scritturale, ma che rende difficile la
ruminatio, per dirla con gli antichi monaci benedettini, dei testi
sacri i quali rischiano di affollarsi troppo numerosi nella mente del
fedele e finanche del chierico, e scardina in modo arbitrario quel
principio simbolico per il quale microcosmo e macrocosmo si
corrispondono riassunti nell’alfa e omega che è Cristo glorioso:
il corso del cosmo non corrisponde più a quello della celebrazione,
il disporsi dei corpi e delle anime nel rito non trova più la
propria rispondenza e risonanza nel procedere delle stagioni, l’opus
Dei-liturgia viene separato dall’opus Dei-creazione. Cfr su questi
temi le tre Note sopra la liturgia – in particolare la seconda - di
Cristina Campo (edizione recente: Cristina Campo, Sotto falso nome,
Milano, Adelphi, 1998, pp. 129-135), ed il breve ma suggestivo
libretto del grande musicologo svizzero Marius Schneider, Singende
Steine (edizione italiana recente: Marius Schneider, Pietre che
cantano, Milano, SE, 2005).
[2] Cfr. Fulvio Rampi, Del canto
gregoriano, Dialoghi sul canto proprio della Chiesa, a cura di
Maurizio Cariani e Fabrizio Lonardi, Milano, Rugginenti, 2006, pp.
46-59.
[3] Thomas Day, Why Catholics can’t
sing, The Culture of Catholicism and the Triumph of Bad Taste, New
York, Crossroad, 1990.
[4] Mi sia consentita un’ampia
citazione del testo stesso: «Roman Catholicism used to know all
about the idea of letting liturgy be liturgy. (Like the Orthodox, it
knew how to make “the people” feel that they were actors on a
cosmic theater set.) But the church is rapidly moving away from this
way of doing things to a system which tries to appease each
constituency and subconstituency within “the people.” In other
words, it is moving away from a ritual which simply takes place (the
historic method) to something that is presented to a constituency.
The tehologians may say otherwise, but members of the laity have the
impression that, in the “new” Mass, the priest, musicians, and
assistants seem to be presenting a show at the congregation. Let me
give the reader two “pictures” which clarify this important
distinction between the event which “takes place” and the one
which is “presented to” a congregation. In the 1950s I attended
the somber Tenebrae service during Holy Week in Philadelphia0s
Catholic cathedral. A choir of seminarians, seated in the front of
the church, elegantly chanted one Latin psalm after another, without
accompaniment. Now and then, a priest would appear, beautifully chant
one of the readings (again, in Latin), and then disappear into the
sacristy. Aside from seminarians, there was a total of about six
members of the laity in the congregation. The time of day was
inconvenient for most people; the cathedral had made almost no effort
to publicize Tenebrae or explain it. But nobody worried about the
small “turnout.” Nobody was embarrassed. Liturgy of all sorts
just “was,” whether two people were there or two hundred. My
second picture takes us to a large urban unviersity. I was strolling
past the university’s large chapel and heard some impressive music
coming from it. I decided to follow the sounds to their origin.
There, inside the chapel, I beheld a robed and paid choir of about
twenty, under the direction of the finest organist within a radius of
a hundred miles. As I stood there at the entrance of the edifice, I
froze in a mild form o terror, because the five ro so clergymen who
were conducting this interdenominational service were all intensely
staring at me with a mixture of rage and hope. I was the third member
of a congregation of three and my toes were curling. Tenebrae “took
place.” The interdenominational service was “presented to” a
congregation. In the first event, everybody, including the six
laypeople in the cavernous church, was part of an action which moved
forward, in one direction. In the second event, the service moved
toward the congregation, which was not there.» (op. cit., pp.
80-81).
[5] Non ho citato il collegamento
evidente a tutti – proprio a tutti, persino agli atei, da quelli
che firmarono i famosi appelli di Una Voce e della Latin Mass Society
negli anni sessanta del secolo scorso al noto autore francese Michel
Onfray, che ha recentemente pubblicato sul Figaro una apologia del
rito tradizionale dal suo punto di vista di non credente – fra
liturgia latina e civilizzazione occidentale: nella musica, nella
poesia, nelle arti figurative. Anch’esso mi collega, seppure in
maniera meno mistica, alle innumerevoli generazioni cristiane che mi
hanno preceduto, e più specificamente al meglio della loro cultura.
Saper di avere a disposizione “nei propri forzieri” i più alti
pinnacoli della civiltà occidentale, e tuttavia non poterli offrire
all’altare di Dio: questo sarebbe orribile ma esula dall’essenza
della liturgia in sé e per sé.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.