Chiesa di Santa Maria delle Grotte a Rocchetta a Volturno (Isernia).
(photo by Alessandro Franzoni)
La chiesa di Santa Maria alle Grotte si
erge solitaria, come un prezioso scrigno incastonato fra le rocce e
una vivida vegetazione, unico edificio rimasto di un più ampio
complesso monastico benedettino. Sorta su grotte naturali, in un
luogo privilegiato, punto di confluenza e di transito di pellegrini e
crociati, ha rivelato nel corso dei secoli i segni di una profonda
devozione nei confronti di un simulacro della Madonna con il Bambino.
Descrizione storico-artistica
A pochi chilometri dalla badia di San
Vincenzo, la chiesa di Santa Maria delle Grotte, collocata a sud-est
di Rocchetta a Volturno e a breve distanza dal fiume che bagna il
territorio, sorse su grotte naturali come rifugio per i monaci
eremiti.
La sequenza di un contesto rupestre
rimodellato a scopo abitativo e una serie di attrezzature necessarie
per la produzione olearia e vinaria in prossimità del sito,
delineano le tracce di un vasto e articolato complesso monastico.
Posto ai limiti di un antico tracciato,
che collegava le abbazie benedettine di San Vincenzo e Montecassino,
l’insediamento ha avuto inizio sfruttando le cavità rocciose sulle
quali venne edificata una chiesa dedicata alla Vergine, evidentemente
in memoria di un evento miracoloso occorso in un momento di carestia
o calamità naturale. Probabilmente la chiesa è da riferirsi al
tardo secolo XII o agli inizi di quello successivo, anche se con
questo nome è nota solo dalla metà del XIII secolo. Una campana del
1331 recuperata da Angelo Pantoni a Rocchetta Vecchia e custodita nel
campanile della basilica di San Vincenzo reca l’iscrizione “FRATER
FRANGISCUS DE VULDE REGIA, PRIOR SCE M DE GRIPTIS”. Questa
costituisce la prima testimonianza della chiesa e della presenza di
una comunità monastica a Rocchetta. Tale testimonianza, la
conformazione della chiesa e la decorazione pittorica interna,
confermano la possibilità che vi sia stata una fase di maggior
sviluppo della badia, che avrebbe raggiunto il suo apice tra XIII e
il XIV secolo.
Sulle origini dell’edificio
benedettino non abbiamo notizie precise, ma appare evidente che la
sua edificazione è legata all’insediamento del vicino monastero
dedicato a San Vincenzo. Una serie di rimaneggiamenti delle strutture
e diverse sovrapposizioni, che si sono susseguite nel corso dei
secoli, riferibili alle diverse fasi della vita monastica, rendono
difficile la comprensione delle stratificazioni e una più precisa
cronologia degli ampliamenti subiti.
La scelta del sito è da collegare alla
presenza di una serie di grotte naturali che caratterizzano il
territorio e hanno poi determinato il nome stesso della chiesa.
Legata sicuramente ai riti arcaici della Madre Terra e all’idea del
ventre di Maria, la grotta sembra essere un luogo privilegiato per le
ierofanie mariane. In tutto il Mezzogiorno luoghi di culto pagani
legati ai riti agropastorali nascono in prossimità di antiche grotte
naturali, in seguito dedicati alla Vergine, strutture successive si
sovrappongono ad antiche spelonche nelle quali tracce di affreschi
mariani contraddistinguono il toponimo.
La chiesa di Rocchetta, che appare come
una visione in pietra della teologia benedettina, costruita con
tipiche pietre locali, porose e friabili, consta di due piccole
navate, di cui una soltanto comunica con l’esterno, che corrisponde
al fianco laterale destro, dove si apre nell’estremità sinistra un
elegante portale in alabastro Volturense. Dei tre archi a tutto sesto
che incorniciano il portale quello superiore è decorato da foglie
d’acanto e poggia su esili colonnine poligonali con capitelli a
crochet di raffinata esecuzione che richiamano modelli scultorei
diffusi nel corso del Duecento tra la Puglia e l’Abruzzo, a
testimonianza di quella circolazione culturale di modelli e di
influssi che investì l’area adriatica per tutto il Medioevo. Anche
nella sua semplicità il portale mostra i segni di quel raffinato
virtuosismo scultoreo, espresso in fitte e sinuose sequenze vegetali,
che contraddistingue numerosi edifici sacri molisani tra il XIII e il
XIV secolo. Nella lunetta una ormai sbiadita Madonna con Bambino fra
due angeli, attesta la centralità del culto mariano e conferma il
ruolo di Maria, titolare della chiesa, come simbolo di intercessione.
A destra della porta d’accesso, sulla ruvida e scarna muratura due
semplici monofore fortemente strombate, offrono l’unica fonte di
luce all’interno.
Superato il portale si apre una navata
a pianta rettangolare, con andamento verticale, dotata di un
presbiterio con arco a sesto acuto e volta a crociera, mentre
un’ampia arcata gotica e un più piccolo ingresso arcuato mettono
in comunicazione la navata maggiore con quella più antica, di
dimensioni minori, delimitata dalla parete rocciosa, sulla quale
poggia l’intera struttura. A conclusione della navata minore si
apre una cavità naturale, parte terminale dell’originario e più
antico impianto della chiesa, successivamente modificata in seguito
agli ampliamenti verificatisi nel corso del Medioevo, con
l’inserimento di un’arcata, nel momento in cui il vano venne
utilizzato come luogo di sepoltura.
Attraverso il presbiterio si
raggiungono due ambienti, quello di sinistra collegato mediante una
porta, ha funzione di sagrestia, mentre quello a destra, limitato da
un arco, risulta essere una vera e propria cappella laterale. Questa
parte dell’edificio, che sporge dal muro di sud-ovest, e non si
appoggia alle pareti rocciose, risalirebbe al 1513, come ricorda
l’iscrizione sulla parete esterna.
L’arcone trionfale a sesto acuto che
poggia sugli affreschi campiti sulla parete longitudinale, non
anteriori alla seconda metà del XIII secolo, porterebbe a pensare a
una fase di ristrutturazione, evidentemente portata a termine tra il
XII e il XIII, che coincide anche con la ricostruzione della chiesa
di San Vincenzo, completata nel 1115 e consacrata ad opera di Papa
Pasquale. Alla seconda metà del XIV secolo va riferita una
successiva ristrutturazione, come testimonia un manoscritto
dell’archivio della cattedrale di Isernia, ritrovato dal Ciarlanti,
quando nel 1349 un terremoto colpì l’intera area. Altri
cambiamenti furono apportati nei secoli successivi, e anche gli
affreschi subirono manomissioni quando nel 1619 la chiesa fu
“rivotata et bianchita”, come testimonia un’epigrafe posta sul
portale.
Il santuario di carattere eremitico di
tipo rupestre, come molte chiese di fondazione monastica disseminate
tra l’Abruzzo, la Campania e la Puglia, fu evidentemente semplice
cappellina, caratterizzata da una funzione votiva o stazionale poiché
collocata lungo la via antiqua, itinerario percorso dai pellegrini
verso le regioni meridionali nei santuari del Gargano e di Bari o
diretti verso i porti della costa pugliese, punto d’imbarco per la
Terra Santa. Com’è facile comprendere dalle diverse fasi, pur
mantenendo il riferimento all’originale connotazione di grotta, una
struttura di dimensioni maggiori, dedicata a Santa Maria, fu
costruita sulla cavità rocciosa evidentemente non più sufficiente
ad accogliere i pellegrini in transito e che sostavano per
ringraziare la Vergine per la protezione lungo l’impervio cammino.
La chiesa sorge sul percorso che collegava le terre di San Vincenzo
alla Campania, dove da Benevento tramite la via Appia-Traiana si
procedeva verso i porti pugliesi. Attraversando Aecae e di lì
percorrendo la via Peregrinorium, un diverticolo che portava al
santuario micaelico del Gargano, si raggiungeva la via litoranea sino
al santuario nicolaiano di Bari, tappe importanti lungo la via
francigena, mete di un pellegrinaggio non solo locale per tutto il
Medioevo ed oltre. Per la naturale posizione geografica il territorio
molisano fu un anello importante per lo snodo di itinerari religiosi.
Attraverso il sistema di vie consolari di età romana, e i tratturi
che collegavano l’Abruzzo alla Puglia, il Molise fu partecipe degli
itinerari nord-sud, lungo la fascia adriatica della penisola, e degli
itinerari est-ovest, tra l’Adriatico e il Tirreno.
L’accostamento di trame romaniche e
gotiche, con l’avvicendarsi di un apparato decorativo recettivo
delle influenze locali provenenti da diverse estrazioni culturali, le
pitture che risentono dei modelli bizantino-cassinesi e quelle di più
marcato respiro gotico-angioino, confermano la confluenza culturale
nella quale il monastero veniva a trovarsi. Verso la fine Duecento la
badia di San Vincenzo, promotrice delle arti alle sorgenti del
Volturno, era già in decadenza, mentre le pitture che si conservano
nella parte più antica della chiesa di Santa Maria delle Grotte
proseguono la tradizione pittorica fiorita a Montecassino verso la
fine del secolo XI con la presenza di artisti bizantini fatti
giungere dall’abate Desiderio per decorare sontuosamente la chiesa
del monastero cassinese.
Le affinità di alcuni frammenti
scultorei ritrovati all’interno dell’edificio con opere di chiese
abruzzesi è stata già rilevata dal Toesca, mentre Bertaux, che
aveva attribuito al fenomeno artistico delle abbazie di Montecassino
e di San Vincenzo un carattere unitario, ipotizzò l’esistenza di
una vera e propria scuola benedettina, ritrovando nelle pitture della
cripta di Epifanio le premesse di uno stile che arriverà ai massimi
livelli secoli più tardi, quando Desiderio divenne abate cassinese.
Fu certamente nell’età desideriana che la cultura benedettina si
fuse con la tradizione bizantina, per la presenza di maestranze
greche a Montecassino, che influenzarono la produzione coeva e
successiva, quando l’iconografia orientale subentrò nei cicli
pittorici dell’Italia meridionale.
Eseguiti in epoche diverse gli
affreschi della chiesa di Rocchetta si possono dividere in tre gruppi
principali. I dipinti più antichi, relativi alla vita di Cristo,
sono visibili sulle pareti rocciose, mentre sulla parete che separa
le due navate si dispiega una sequenza di Santi olosomi, e nella
cappella presbiteriale affreschi più tardi raffigurano scene
dell’Infanzia di Cristo. Tracce pittoriche si ritrovano anche nella
cappella rupestre in cui è situata l’arca funeraria gotica, dove,
oltre la presenza di Santa Margherita, riconoscibile dall’iscrizione,
un ciclo dedicato alla sepoltura del Cristo, di cui restano solo
labili frammenti, doveva ricoprire le pareti.
Opera di diversi e molteplici artisti
che si sono susseguiti nel corso del tempo, gli affreschi sono la
testimonianza di quella vivacità culturale che si avvale di
esperienze e risonanze artistiche provenienti da San Vincenzo, da
Montecassino e dalla chiesa di Sant’Angelo in Formis, in un
territorio che diventa crocevia culturale. Punto di raccordo che trae
le radici dalla vicina Campania, dal Lazio e dalla Puglia, dove
confluiscono modelli diversi che giungono nelle terre molisane anche
tramite l’afflusso di pellegrini e di crociati, gli affreschi di
Santa Maria alle Grotte risentono degli apporti orientali, in larga
misura balcanici, dovuti agli intensi scambi culturali e commerciali
tra le due sponde dell’Adriatico, che si fondono con esperienze di
matrice europea mediate dall’ambiente romano e dalla corte angioina
napoletana.
Il ciclo della vita di Cristo, come
accennato, fa parte della decorazione più antica, presumibilmente
realizzata verso la fine del XIII e l’inizio del successivo. Le
immagini che si estendono sulla parete rocciosa sembrano condividere
la cultura diffusa nelle terre meridionali fortemente caratterizzate
da ascendenze tardo-comnene di derivazione balcanica, ma che paiono
impregnate di sentori gotici. Le scene dell’Annunciazione e della
Presentazione di Gesù al Tempio già si avvalgono dell’influenza
del Cavallini, che mediava reminiscenze bizantine con apporti di
derivazione assisiate, indicatore di una congiuntura culturale che si
andava svolgendo nell’ambiente romano verso la fine del Duecento.
Eseguiti in epoche diverse gli
affreschi della chiesa di Rocchetta si possono dividere in tre gruppi
principali. I dipinti più antichi, relativi alla vita di Cristo,
sono visibili sulle pareti rocciose, mentre sulla parete che separa
le due navate si dispiega una sequenza di Santi olosomi, e nella
cappella presbiteriale affreschi più tardi raffigurano scene
dell’Infanzia di Cristo. Tracce pittoriche si ritrovano anche nella
cappella rupestre in cui è situata l’arca funeraria gotica, dove,
oltre la presenza di Santa Margherita, riconoscibile dall’iscrizione,
un ciclo dedicato alla sepoltura del Cristo, di cui restano solo
labili frammenti, doveva ricoprire le pareti.
Opera di diversi e molteplici artisti
che si sono susseguiti nel corso del tempo, gli affreschi sono la
testimonianza di quella vivacità culturale che si avvale di
esperienze e risonanze artistiche provenienti da San Vincenzo, da
Montecassino e dalla chiesa di Sant’Angelo in Formis, in un
territorio che diventa crocevia culturale. Punto di raccordo che trae
le radici dalla vicina Campania, dal Lazio e dalla Puglia, dove
confluiscono modelli diversi che giungono nelle terre molisane anche
tramite l’afflusso di pellegrini e di crociati, gli affreschi di
Santa Maria alle Grotte risentono degli apporti orientali, in larga
misura balcanici, dovuti agli intensi scambi culturali e commerciali
tra le due sponde dell’Adriatico, che si fondono con esperienze di
matrice europea mediate dall’ambiente romano e dalla corte angioina
napoletana.
Il ciclo della vita di Cristo, come
accennato, fa parte della decorazione più antica, presumibilmente
realizzata verso la fine del XIII e l’inizio del successivo. Le
immagini che si estendono sulla parete rocciosa sembrano condividere
la cultura diffusa nelle terre meridionali fortemente caratterizzate
da ascendenze tardo-comnene di derivazione balcanica, ma che paiono
impregnate di sentori gotici. Le scene dell’Annunciazione e della
Presentazione di Gesù al Tempio già si avvalgono dell’influenza
del Cavallini, che mediava reminiscenze bizantine con apporti di
derivazione assisiate, indicatore di una congiuntura culturale che si
andava svolgendo nell’ambiente romano verso la fine del Duecento.
Al XIII secolo si può datare la parete
santorale sulla navata maggiore, che appare come una vera e propria
iconostasi, gravemente danneggiata dalle scalfitture seicentesche. Le
diverse figure, evidentemente ritratte in momenti diversi, mostrano
un’unità simbolica più che stilistica. La chiesa sembra attestare
la costante presenza dei viatores che per tutto l’arco del Medioevo
lasciarono lungo il cammino dei pellegrini i segni della loro
devozione nelle chiese e nelle cappelle disseminate nel Mezzogiorno.
Sul muro divisorio, popolato dal folto
santorale, disposto su due registri delimitati da cornici rosse, sono
inseriti alcuni santi ricordati nella Guida del Pellegrino di Picaud,
un testo che risale agli anni trenta del XII secolo. Tra questi: san
Leonardo, le cui reliquie sono custodite nel santuario lungo la via
Lomisina, e San Giovanni Battista, dove a Saint-Jean d’Angély,
nella regione ovest di Charente-Maritime, si conferma la presenza di
una parte del cranio del Santo. I pannelli in cui sono raffigurati i
santi, racchiusi in riquadri rossi, testimoniano la vivacità del
luogo sacro e svolgono precise funzioni devozionali. Le immagini dei
santi sauroctoni confermano l’idea della salvazione nella lotta
contro le insidie del peccato, come il megalomartire San Giorgio che
trafigge il drago, per antonomasia simbolo del male, e Margherita di
Antiochia, più volte replicata all’interno della chiesa,
conosciuta in Oriente con il nome di Marina, la santa che aveva
sconfitto il demonio sotto forma di drago con un solo segno di croce,
come tramanda una Passio greca del V-VI secolo, attribuita a
Theotimo, e resa celebre nel Medioevo occidentale dalla Legenda Aurea
di Jacopo da Varagine. Oltre all’immagine nell’oratorio
benedettino di Bominaco, nella chiesa rupestre di Santa Maria in
Grotta a Rongolise, e nella Grotta di San Michele sul versante
meridionale del Monte Monaco di Gioia presso Benevento, a Margherita
saranno dedicati cicli agiografici nelle chiese rupestri di Mottola e
di Melfi, e sulla volta della chiesa di Santa Maria della Croce a
Casaranello presso Lecce, a testimonianza della diffusione del culto
della santa in Italia meridionale. La presenza di Maria Maddalena,
peccatrice redenta, riconoscibile dal vaso contenente il balsamo,
evoca l’umanità penitente e il pellegrino che si reca nei luoghi
santi per ottenere il perdono e l’espiazione.
L’immagine di San Cristoforo, per
eccellenza protettore dei pellegrini e dei traghettatori, invocato
dai viatores e mercanti durante il lungo viaggio, convalida l’ipotesi
che la chiesa fosse tappa intermedia delle peregrinationes maiores
lungo il percorso della via Francigena attraversata da pellegrini e
crociati. Cristoforo, il santo dalla corporatura gigantesca,
originario della Licia, che aveva traghettato Cristo da una sponda
all’altra del fiume, come narrato dalla Leggenda Aurea di Jacopo da
Varagine, diffusore del culto in Occidente, proteggeva i viandanti
che intraprendevano viaggi pericolosi. Il Santo, solenne e ieratico,
con una veste decorata che riprende i motivi dei tessuti orientali,
coperto da un manto rosso stretto da un fermaglio circolare, tipico
prodotto dell’oreficeria bizantina, occupa uno spazio maggiore
rispetto alle altre immagini. Cristoforo ha il volto barbuto e i
capelli lunghi, e riprende i tratti del viso di Cristo seduto sulle
sue palle, ispirato ad antiche icone o ad affreschi del Pantocratore,
la cui presenza si ripete canonicamente sulle cupole delle chiese
greche come nella Sicilia normanna. La mano destra del Santo è
sollevata ed il palmo aperto è rivolto verso chi guarda a confermare
il suo ruolo di intercessore, mentre la sinistra regge un
sottilissimo bastone che lo assimila al pellegrino. L’immagine del
Santo in maestose sembianze è riproposta, nella seconda metà del
Duecento, a Bominaco, sita in prossimità della via Claudia Valeria
che portava a Roma, e nei pressi del tratturo Regio L’Aquila-
Foggia, a conferma dell’importanza del culto che viaggia sulle
strade dei pellegrini e dei pastori.
Nonostante sia privo di quell’eleganza
formale che caratterizza l’immagine di Rocchetta, nella chiesa
dedicata a San Pellegrino a Bominaco, ascrivibile ad una corrente
pittorica di tipo benedettino, San Cristoforo conferma la sua
particolare funzione di accompagnatore e di guida nella fitta rete di
itinerari religiosi medievali. Più simile nella posa e nei gesti, ma
semplificato nella forma e nella decorazione delle vesti, è il San
Cristoforo nella chiesa abbaziale benedettina dei Santi Crisante e
Daria, sorta a Filetto nei pressi di Camarda in Abruzzo. San Nicola,
con la mano benedicente e gli abiti vescovili, ritratto insieme ad
Adeodato, affrescato sulla parte bassa della fascia interna all’arco,
ricorda il miracolo effettuato dal Santo che salvò il giovane caduto
in mare mentre riempiva d’acqua una coppa, episodio diffuso in
Occidente dalla Vita scritta nel X secolo da Giovanni Diacono monaco
cassinese. L’affresco conferma non solo la forte spinta devozionale
nei confronti del vescovo di Myra, ma è legato all’idea della
salvezza e sottende anche un percorso di redenzione in una dimensione
soterologica. San Nicola aveva fama di placare le tempeste, veniva
evocato dai pellegrini che si imbarcavano per la Terra Santa, anche
grazie al racconto tramandato da Michele Archimandrita, noto come
Praxis de nautis, che narra del salvataggio di alcuni naviganti che
invocarono il Santo durante una tempesta, episodio fra i più diffusi
nei cicli agiografici dedicati a san Nicola, a Bisanzio e nell’area
balcanica, dove forte è la devozione nei confronti del taumaturgo
barese. Simile appare la connotazione dell’immagine di San Mauro
con il giovane Placido in vesti diaconali, salvato dalle acque del
lago, come narrato nei Dialoghi di Gregorio Magno, ritratto con il
Libro sotto il braccio sulla fascia interna dell’arco. Posto al di
sotto di Santa Margherita, ed entrambi sul lato sinistro di san
Cristoforo, l’immagine di san Mauro che tiene per i cappelli
Placido, è legata alla presenza di san Benedetto che racchiuso in
preghiera ebbe la visione del giovane diacono mentre cadeva in acqua,
e avendo chiamato Mauro quest’ultimo accorse a salvare il giovane
camminando sulla superficie del lago. L’immagine di san Mauro e di
san Nicola che salva il giovane Adeodato, porterebbero a pensare che
gli affreschi fossero dei veri e propri ex voto di pellegrini
scampati ai pericoli e alle insidie del mare lungo l’impervio e
faticoso cammino verso l’Oriente.
La sequenza santorale inizia sul
registro superiore con due santi cavalieri, che appaiono eseguiti in
tempi successivi rispetto alle altre immagini. Il primo è
identificabile con san Giorgio, che uccide il drago dalle sembianze
di serpente, il cui culto dalla Palestina si diffuse largamente in
tutto il bacino mediterraneo. Il secondo non presenta alcun attributo
o iscrizione che aiuti il riconoscimento. Forse potrebbe
identificarsi con san Martino, emulo di san Francesco, ma
l’accostamento con san Giorgio è alquanto inusuale, giustificabile
se si considera la diffusione del culto del santo nell’ambiente
benedettino di San Vincenzo e la tendenza negli affreschi di Santa
Maria delle Grotte di affiancare un santo di origine orientale con un
santo di tradizione europea. Il santo a cavallo è visibile nella
chiesa di Bominaco, dove, come nelle più consuete e frequenti
iconografie, è accompagnato dalla presenza del mendicante al quale
sta offrendo metà del suo mantello, noto episodio della Vita
Martini, scritta dal discepolo Severo Sulpicio.
Le immagini dei Santi cavalieri, il cui
culto ebbe origine in Oriente, sono legate ai Crociati, i milites
Christi, che, durante l’avanzata verso l’Outremer, erano soliti
esibire sui vessilli le effigi dei Santi militari, in cui
riflettevano le virtù cristiane dei difensori della fede. Già
conosciuta nell’Egitto copto, in Cappadocia, in Georgia e in
Armenia, l’immagine del Santo guerriero a cavallo si diffonde a
Bisanzio e in area balcanica a partire dal XIII secolo, mentre in
Occidente ebbe una forte risonanza nel periodo crociato, come
dimostrano le numerose icone eseguite da artisti europei e
provenienti dagli atelier latini della Terra Santa. I Santi militari
ebbero fortuna fra i soldati di professione, discendenti di antiche
stirpe di guerrieri come i Longobardi e i Normanni, che in Occidente
furono i maggiori diffusori del culto dei Santi guerrieri, primo fra
tutti quello dell’Arcangelo Michele, capo delle milizie celesti,
difensore del popolo di Dio e della chiesa, il cui culto nato in
Oriente trova nella spelonca garganica il suo luogo ideale.
L’immagine di Sant’Ippolito a cavallo nella chiesa di Santa Maria
di Monte d’Elio presso Sannicandro Garganico, che vede il santo
esibire uno stendardo crociato, trova rispondenza in alcune icone
sinatiche del XIII secolo provenienti dalle botteghe latine di
Gerusalemme. San Demetrio, il martire di Tessalonica, il cui culto si
diffonde sulle rotte dei crociati e dei pellegrini, proprio sulla via
Egnatia, che da Durazzo portava a Costantinopoli, passando per
Tessalonica, la seconda città dell’Impero, fino a Bisanzio, è
solitamente affiancato nell’area balcanica a san Giorgio. Sono
affrontati nella cripta di San Biagio a San Vito dei Normanni e nei
pressi di Nardò nella chiesa rupestre di Sant’Antonio abate, uno
con un cavallo bianco e l’altro scuro. San Francesco con le
stimmate e San Benedetto, entrambi con la Regola nella mano sinistra,
in una continuità storica che affianca i due ordini simili per
spiritualità e geograficamente vicini, definiscono l’ambiente
monastico prossimo alla chiesa, quello di Assisi e quello di
Montecassino, e creano una filo sacro tra l’Umbria, il Molise e la
Campania. Dalla folta barba e i capelli irsuti, il volto scarno ed
emaciato, con indosso una pelle d’animale, fra i due santi
autoctoni appare l’immagine di Sant’Onofrio, anacoreta di origine
orientale, che ancora una volta testimonia la vocazione spirituale
che unisce l’Oriente cristiano con l’Occidente, e chiarisce i
termini della originaria fondazione eremitica della chiesa
benedettina di Rocchetta. La fioritura della spiritualità eremitica
nei territori occidentali, rinvigorita dagli ordini Mendicanti, diede
avvio ad una fortuna del culto di sant’Onofrio in Europa sulle
rotte crociate, anche favorito dalla divulgazione della Vita nella
redazione latina attribuita a Pafnunzio. L’immagine del Santo,
sempre presente nelle sequenze santorali delle chiese bizantine, ebbe
notevole diffusione in Italia centro-meridionale, la sua sacralità
ascetica è riconoscibile in San Pellegrino a Bominaco, nella chiesa
di Sant’Angelo in Formis, affiancato a Santa Margherita a
Rongolise, nella chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio a Corone nel
santuario lucano di Santa Maria d’Anglona, nella cripta della
basilica di San Nicola a Bari, nella chiesa di Santa Maria Veterana a
Bitetto, e nell’area molisana nella chiesa rupestre di Sant’Eramo
ad Isernia. Nel Salento, territorio che per secoli ha testimoniato
quell’osmosi culturale fra le sponde del Mediterraneo, Onofrio è
visibile fra la teoria dei santi nella chiesa di Santa Marina a Muro
Leccese, nella chiesa dell’abbazia benedettina di Santa Maria delle
Cerrate nei pressi di Squinzano, nella chiesa di Santo Stefano a
Soleto e nel ciclo quattrocentesco della chiesa di Santa Caterina
d’Alessandria a Galatina, dove echi bizantini si fondono a matrici
tardogotiche di derivazione napoletana e umbro-marchigiana con chiare
ascendenze neogiottesche.
Frammenti di un ciclo di pitture sono
ancora visibili sulle pareti della cappella meridionale del
presbiterio, realizzate probabilmente tra il XIV e il XV secolo, già
voltati verso la cultura tardogotica di matrice campana e
marchigiana. In primo luogo è ravvisabile, in un affresco fortemente
corrotto, una probabile Adorazione dei Magi. Si riconosce nel lacerto
successivo una Presentazione al Tempio, tema iconografico già
presente all’interno del sito, sulla parete rocciosa e ripreso in
una veste tardogotica, dove una spazialità architettonica conferisce
alla scena profondità prospettica. Gli affreschi risentono della
componente culturale di derivazione angioina che aveva investito il
Mezzogiorno sul finire del Trecento e gli inizi del secolo
successivo, dove apporti locali e esperienze provenienti dall’area
adriatica avevano dato vita ad una peculiare manifestazione del
tardogotico contaminato dalle influenze neogiottesche. La serie di
immagini del presbiterio tende a rivelare l’importanza della figura
mariana, a cui sembrerebbe dedicato un ciclo sistematico e completo,
ormai perduto, a testimonianza della longevità del culto della
Madonna delle Grotte, il cui simulacro ligneo medievale è da secoli
oggetto di devozione. Questo accompagnava evidentemente l’immagine
di Maria in trono, affrescata dietro l’altare maggiore, di cui
restano flebili tracce solo della parte inferiore.
La “Madonna Magna”, così come
viene chiamata la statua della Madonna delle Grotte, ha subito
ridipinture nel corso dei secoli che ne hanno modificato l’aspetto
originario, rendendo più difficile una precisa datazione. La Vergine
con le braccia in avanti, in atteggiamento orante, tiene il Bambino
in piedi sulle ginocchia anch’egli con le braccia aperte. Il busto
eretto e slanciato, un sorriso che le addolcisce il volto, la statua
della Vergine di Rocchetta sembra stilisticamente prossima ad altre
Madonne lignee molisane, come la Madonna della cattedrale di Isernia,
e quella di Santa Maria di Canneto a Roccavivara, che mostrano
aperture al gotico-angioino. Partecipe di una temperie culturale
variegata e ricettiva, il Molise assume il ruolo di cerniera
geografica tra nord e sud, e precocemente aperta ad apporti
francesizzanti di provenienza angioino-napoletana, ma
contemporaneamente pronta a recepire le novità provenienti nelle
aree dell’Italia centrale e adriatica tra l’Abruzzo, l’Umbria e
le Marche.
La statua della Madonna delle Grotte,
la cui datazione può oscillare tra il XIII e il XIV secolo, è da
assimilare ad alcune Madonne lignee dell’area umbra e abruzzese,
tributarie, secondo De Francovich, dell’arte delle maestranze
d’intagliatori tedesco-tirolesi, la cui attività doveva essere
assai intensa nei secoli XII e XIII, e riscontrabile nell’Italia
centrale nel Crocifisso ligneo della chiesa di San Pietro a Bologna
del XII secolo. Prossima alla Madonna delle Grotte è la Madonna di
Spello, che iconograficamente deriva dall’immagine della Madonna
Nicopoia, largamente diffusa nella pittura bizantina a partire dal V
secolo, in cui la Madonna assisa in trono tiene il Bambino in piedi
sulle sue ginocchia, immagine più volte replicata nei simulacri
lignei diffusi tra l’Abruzzo e la Capitanata. La posizione delle
braccia di alcune Madonne lignee romaniche dell’Italia centrale
derivano probabilmente da modelli bizantini, e eviprecisamente dalla
Madonna orante che allarga le braccia in segno di preghiera e
intercessione. De Francovich ritiene invece che fossero ispirate a
lavori d’oreficeria e soprattutto a un gruppo di sculture
metalliche e ai busti-reliquiari, come la nota statua di Sainte-Foy
che protende le braccia rigide (parte del tesoro della chiesa di
Conques nell’Alvernia, ed eseguita dal tra il 942 e il 984, ai
tempi di Stefano abbate di Conques vescovo di Clermont). Il
busto-reliquiario di Sainte Baudime, in ottone dorato e argentato,
del XII secolo, nella chiesa di Saint-Nectaire a Puyde- Dome in
Alvernia, affine ad altri due busto- reliquiari di Sainte Césaire a
Maurs e di San Teofredo a Le Monastier, prodotti nelle officine di
Limoges, ricorda assai da vicino la posizione delle braccia della
Madonna di Spello, così come quella della Madonna di Rocchetta.
Ancora all’ambito eremitico
rimanda l’immagine di San Giovanni Battista a piedi nudi e
ricoperto da una corta tunica di pelo di cammello, come appare nelle
usuali raffigurazioni greche, a volte raffigurato insieme alla
Vergine, entrambi ai lati del Cristo, nelle diffusissime immagini
della Deesis bizantina, come speciale intercessore.
La presenza di San Vincenzo di
Saragozza, in abiti da diacono, oltre ad attestare la continuità del
culto, conosciuto nel Molise anche prima della fondazione della
badia, è da porsi chiaramente in relazione con la vicina abbazia
benedettina che collega non solo i due poli monastici ma conferma una
serie di relazioni culturali. Conclude la parata sul registro
superiore il protettore dei prigionieri San Leonardo di Noblac,
eremita e abate di Limoges, riconoscibile dalle catene, il cui culto
giunse nel Mezzogiorno sulle vie dei pellegrini lungo il cammino di
Santiago. Favorito dai Normanni il culto dalla Francia penetrò nella
Puglia settentrionale, dove intorno al XII secolo gli fu dedicata una
chiesa nei pressi di Siponto, nel tratto meridionale della via
Francigena, conosciuta anche come Via Sacra Langobardorum, sul ciglio
di una delle vie dirette alla grotta garganica sacra all’Arcangelo,
che divenne nel corso del Medioevo un luogo di pellegrinaggio
partecipe di quel flusso di peregrinationes sia regionali che
europee. Dalla Puglia attraverso i crociati il culto raggiunse la
Terra Santa, infatti a Betlemme, su una delle colonne della basilica
della Natività, il santo è ritratto in veste di diacono, con il
consueto attributo delle catene.
La funzione devozionale della parete
santorale di Rocchetta disegna non solo una mappa storica e
geografica dei culti dei santi sul cammino della via francigena da
Santiago a Gerusalemme, ma intesse una rete di confluenze culturali
che vede l’Italia meridionale come crocevia ideale tra l’Europa e
l’Outremer. A santi di origine orientale si alternano santi
europei. Il culto di santi orientali si diffonderà largamente in
Occidente grazie ai Crociati e all’arrivo in Italia delle sacre
reliquie, come quelle di san Nicola, di santa Margherita e dello
stesso san Giorgio.
Frammenti di un ciclo di pitture sono
ancora visibili sulle pareti della cappella meridionale del
presbiterio, realizzate probabilmente tra il XIV e il XV secolo, già
voltati verso la cultura tardogotica di matrice campana e
marchigiana. In primo luogo è ravvisabile, in un affresco fortemente
corrotto, una probabile Adorazione dei Magi. Si riconosce nel lacerto
successivo una Presentazione al Tempio, tema iconografico già
presente all’interno del sito, sulla parete rocciosa e ripreso in
una veste tardogotica, dove una spazialità architettonica conferisce
alla scena profondità prospettica. Gli affreschi risentono della
componente culturale di derivazione angioina che aveva investito il
Mezzogiorno sul finire del Trecento e gli inizi del secolo
successivo, dove apporti locali e esperienze provenienti dall’area
adriatica avevano dato vita ad una peculiare manifestazione del
tardogotico contaminato dalle influenze neogiottesche. La serie di
immagini del presbiterio tende a rivelare l’importanza della figura
mariana, a cui sembrerebbe dedicato un ciclo sistematico e completo,
ormai perduto, a testimonianza della longevità del culto della
Madonna delle Grotte, il cui simulacro ligneo medievale è da secoli
oggetto di devozione. Questo accompagnava evidentemente l’immagine
di Maria in trono, affrescata dietro l’altare maggiore, di cui
restano flebili tracce solo della parte inferiore.
Fonte: ArcheoMolise N°33 – ANNO X –
Articolo di FRANCESCO CAVALIERE
Diritti d’autore: Associazione
Culturale ArcheoIdea
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