domenica 16 ottobre 2022

Un'altra finestra sul (buio?) Medioevo.. (n.35)


Chiesa di Santa Maria delle Grotte a Rocchetta a Volturno (Isernia).

(photo by Alessandro Franzoni)




La chiesa di Santa Maria alle Grotte si erge solitaria, come un prezioso scrigno incastonato fra le rocce e una vivida vegetazione, unico edificio rimasto di un più ampio complesso monastico benedettino. Sorta su grotte naturali, in un luogo privilegiato, punto di confluenza e di transito di pellegrini e crociati, ha rivelato nel corso dei secoli i segni di una profonda devozione nei confronti di un simulacro della Madonna con il Bambino.

 





Descrizione storico-artistica

A pochi chilometri dalla badia di San Vincenzo, la chiesa di Santa Maria delle Grotte, collocata a sud-est di Rocchetta a Volturno e a breve distanza dal fiume che bagna il territorio, sorse su grotte naturali come rifugio per i monaci eremiti.
La sequenza di un contesto rupestre rimodellato a scopo abitativo e una serie di attrezzature necessarie per la produzione olearia e vinaria in prossimità del sito, delineano le tracce di un vasto e articolato complesso monastico.

Posto ai limiti di un antico tracciato, che collegava le abbazie benedettine di San Vincenzo e Montecassino, l’insediamento ha avuto inizio sfruttando le cavità rocciose sulle quali venne edificata una chiesa dedicata alla Vergine, evidentemente in memoria di un evento miracoloso occorso in un momento di carestia o calamità naturale. Probabilmente la chiesa è da riferirsi al tardo secolo XII o agli inizi di quello successivo, anche se con questo nome è nota solo dalla metà del XIII secolo. Una campana del 1331 recuperata da Angelo Pantoni a Rocchetta Vecchia e custodita nel campanile della basilica di San Vincenzo reca l’iscrizione “FRATER FRANGISCUS DE VULDE REGIA, PRIOR SCE M DE GRIPTIS”. Questa costituisce la prima testimonianza della chiesa e della presenza di una comunità monastica a Rocchetta. Tale testimonianza, la conformazione della chiesa e la decorazione pittorica interna, confermano la possibilità che vi sia stata una fase di maggior sviluppo della badia, che avrebbe raggiunto il suo apice tra XIII e il XIV secolo.

Sulle origini dell’edificio benedettino non abbiamo notizie precise, ma appare evidente che la sua edificazione è legata all’insediamento del vicino monastero dedicato a San Vincenzo. Una serie di rimaneggiamenti delle strutture e diverse sovrapposizioni, che si sono susseguite nel corso dei secoli, riferibili alle diverse fasi della vita monastica, rendono difficile la comprensione delle stratificazioni e una più precisa cronologia degli ampliamenti subiti.

La scelta del sito è da collegare alla presenza di una serie di grotte naturali che caratterizzano il territorio e hanno poi determinato il nome stesso della chiesa. Legata sicuramente ai riti arcaici della Madre Terra e all’idea del ventre di Maria, la grotta sembra essere un luogo privilegiato per le ierofanie mariane. In tutto il Mezzogiorno luoghi di culto pagani legati ai riti agropastorali nascono in prossimità di antiche grotte naturali, in seguito dedicati alla Vergine, strutture successive si sovrappongono ad antiche spelonche nelle quali tracce di affreschi mariani contraddistinguono il toponimo.

La chiesa di Rocchetta, che appare come una visione in pietra della teologia benedettina, costruita con tipiche pietre locali, porose e friabili, consta di due piccole navate, di cui una soltanto comunica con l’esterno, che corrisponde al fianco laterale destro, dove si apre nell’estremità sinistra un elegante portale in alabastro Volturense. Dei tre archi a tutto sesto che incorniciano il portale quello superiore è decorato da foglie d’acanto e poggia su esili colonnine poligonali con capitelli a crochet di raffinata esecuzione che richiamano modelli scultorei diffusi nel corso del Duecento tra la Puglia e l’Abruzzo, a testimonianza di quella circolazione culturale di modelli e di influssi che investì l’area adriatica per tutto il Medioevo. Anche nella sua semplicità il portale mostra i segni di quel raffinato virtuosismo scultoreo, espresso in fitte e sinuose sequenze vegetali, che contraddistingue numerosi edifici sacri molisani tra il XIII e il XIV secolo. Nella lunetta una ormai sbiadita Madonna con Bambino fra due angeli, attesta la centralità del culto mariano e conferma il ruolo di Maria, titolare della chiesa, come simbolo di intercessione. A destra della porta d’accesso, sulla ruvida e scarna muratura due semplici monofore fortemente strombate, offrono l’unica fonte di luce all’interno.

Superato il portale si apre una navata a pianta rettangolare, con andamento verticale, dotata di un presbiterio con arco a sesto acuto e volta a crociera, mentre un’ampia arcata gotica e un più piccolo ingresso arcuato mettono in comunicazione la navata maggiore con quella più antica, di dimensioni minori, delimitata dalla parete rocciosa, sulla quale poggia l’intera struttura. A conclusione della navata minore si apre una cavità naturale, parte terminale dell’originario e più antico impianto della chiesa, successivamente modificata in seguito agli ampliamenti verificatisi nel corso del Medioevo, con l’inserimento di un’arcata, nel momento in cui il vano venne utilizzato come luogo di sepoltura.
Attraverso il presbiterio si raggiungono due ambienti, quello di sinistra collegato mediante una porta, ha funzione di sagrestia, mentre quello a destra, limitato da un arco, risulta essere una vera e propria cappella laterale. Questa parte dell’edificio, che sporge dal muro di sud-ovest, e non si appoggia alle pareti rocciose, risalirebbe al 1513, come ricorda l’iscrizione sulla parete esterna.

L’arcone trionfale a sesto acuto che poggia sugli affreschi campiti sulla parete longitudinale, non anteriori alla seconda metà del XIII secolo, porterebbe a pensare a una fase di ristrutturazione, evidentemente portata a termine tra il XII e il XIII, che coincide anche con la ricostruzione della chiesa di San Vincenzo, completata nel 1115 e consacrata ad opera di Papa Pasquale. Alla seconda metà del XIV secolo va riferita una successiva ristrutturazione, come testimonia un manoscritto dell’archivio della cattedrale di Isernia, ritrovato dal Ciarlanti, quando nel 1349 un terremoto colpì l’intera area. Altri cambiamenti furono apportati nei secoli successivi, e anche gli affreschi subirono manomissioni quando nel 1619 la chiesa fu “rivotata et bianchita”, come testimonia un’epigrafe posta sul portale.

Il santuario di carattere eremitico di tipo rupestre, come molte chiese di fondazione monastica disseminate tra l’Abruzzo, la Campania e la Puglia, fu evidentemente semplice cappellina, caratterizzata da una funzione votiva o stazionale poiché collocata lungo la via antiqua, itinerario percorso dai pellegrini verso le regioni meridionali nei santuari del Gargano e di Bari o diretti verso i porti della costa pugliese, punto d’imbarco per la Terra Santa. Com’è facile comprendere dalle diverse fasi, pur mantenendo il riferimento all’originale connotazione di grotta, una struttura di dimensioni maggiori, dedicata a Santa Maria, fu costruita sulla cavità rocciosa evidentemente non più sufficiente ad accogliere i pellegrini in transito e che sostavano per ringraziare la Vergine per la protezione lungo l’impervio cammino. La chiesa sorge sul percorso che collegava le terre di San Vincenzo alla Campania, dove da Benevento tramite la via Appia-Traiana si procedeva verso i porti pugliesi. Attraversando Aecae e di lì percorrendo la via Peregrinorium, un diverticolo che portava al santuario micaelico del Gargano, si raggiungeva la via litoranea sino al santuario nicolaiano di Bari, tappe importanti lungo la via francigena, mete di un pellegrinaggio non solo locale per tutto il Medioevo ed oltre. Per la naturale posizione geografica il territorio molisano fu un anello importante per lo snodo di itinerari religiosi. Attraverso il sistema di vie consolari di età romana, e i tratturi che collegavano l’Abruzzo alla Puglia, il Molise fu partecipe degli itinerari nord-sud, lungo la fascia adriatica della penisola, e degli itinerari est-ovest, tra l’Adriatico e il Tirreno.

L’accostamento di trame romaniche e gotiche, con l’avvicendarsi di un apparato decorativo recettivo delle influenze locali provenenti da diverse estrazioni culturali, le pitture che risentono dei modelli bizantino-cassinesi e quelle di più marcato respiro gotico-angioino, confermano la confluenza culturale nella quale il monastero veniva a trovarsi. Verso la fine Duecento la badia di San Vincenzo, promotrice delle arti alle sorgenti del Volturno, era già in decadenza, mentre le pitture che si conservano nella parte più antica della chiesa di Santa Maria delle Grotte proseguono la tradizione pittorica fiorita a Montecassino verso la fine del secolo XI con la presenza di artisti bizantini fatti giungere dall’abate Desiderio per decorare sontuosamente la chiesa del monastero cassinese.

Le affinità di alcuni frammenti scultorei ritrovati all’interno dell’edificio con opere di chiese abruzzesi è stata già rilevata dal Toesca, mentre Bertaux, che aveva attribuito al fenomeno artistico delle abbazie di Montecassino e di San Vincenzo un carattere unitario, ipotizzò l’esistenza di una vera e propria scuola benedettina, ritrovando nelle pitture della cripta di Epifanio le premesse di uno stile che arriverà ai massimi livelli secoli più tardi, quando Desiderio divenne abate cassinese. Fu certamente nell’età desideriana che la cultura benedettina si fuse con la tradizione bizantina, per la presenza di maestranze greche a Montecassino, che influenzarono la produzione coeva e successiva, quando l’iconografia orientale subentrò nei cicli pittorici dell’Italia meridionale.

Eseguiti in epoche diverse gli affreschi della chiesa di Rocchetta si possono dividere in tre gruppi principali. I dipinti più antichi, relativi alla vita di Cristo, sono visibili sulle pareti rocciose, mentre sulla parete che separa le due navate si dispiega una sequenza di Santi olosomi, e nella cappella presbiteriale affreschi più tardi raffigurano scene dell’Infanzia di Cristo. Tracce pittoriche si ritrovano anche nella cappella rupestre in cui è situata l’arca funeraria gotica, dove, oltre la presenza di Santa Margherita, riconoscibile dall’iscrizione, un ciclo dedicato alla sepoltura del Cristo, di cui restano solo labili frammenti, doveva ricoprire le pareti.

Opera di diversi e molteplici artisti che si sono susseguiti nel corso del tempo, gli affreschi sono la testimonianza di quella vivacità culturale che si avvale di esperienze e risonanze artistiche provenienti da San Vincenzo, da Montecassino e dalla chiesa di Sant’Angelo in Formis, in un territorio che diventa crocevia culturale. Punto di raccordo che trae le radici dalla vicina Campania, dal Lazio e dalla Puglia, dove confluiscono modelli diversi che giungono nelle terre molisane anche tramite l’afflusso di pellegrini e di crociati, gli affreschi di Santa Maria alle Grotte risentono degli apporti orientali, in larga misura balcanici, dovuti agli intensi scambi culturali e commerciali tra le due sponde dell’Adriatico, che si fondono con esperienze di matrice europea mediate dall’ambiente romano e dalla corte angioina napoletana.

Il ciclo della vita di Cristo, come accennato, fa parte della decorazione più antica, presumibilmente realizzata verso la fine del XIII e l’inizio del successivo. Le immagini che si estendono sulla parete rocciosa sembrano condividere la cultura diffusa nelle terre meridionali fortemente caratterizzate da ascendenze tardo-comnene di derivazione balcanica, ma che paiono impregnate di sentori gotici. Le scene dell’Annunciazione e della Presentazione di Gesù al Tempio già si avvalgono dell’influenza del Cavallini, che mediava reminiscenze bizantine con apporti di derivazione assisiate, indicatore di una congiuntura culturale che si andava svolgendo nell’ambiente romano verso la fine del Duecento.

Eseguiti in epoche diverse gli affreschi della chiesa di Rocchetta si possono dividere in tre gruppi principali. I dipinti più antichi, relativi alla vita di Cristo, sono visibili sulle pareti rocciose, mentre sulla parete che separa le due navate si dispiega una sequenza di Santi olosomi, e nella cappella presbiteriale affreschi più tardi raffigurano scene dell’Infanzia di Cristo. Tracce pittoriche si ritrovano anche nella cappella rupestre in cui è situata l’arca funeraria gotica, dove, oltre la presenza di Santa Margherita, riconoscibile dall’iscrizione, un ciclo dedicato alla sepoltura del Cristo, di cui restano solo labili frammenti, doveva ricoprire le pareti.

Opera di diversi e molteplici artisti che si sono susseguiti nel corso del tempo, gli affreschi sono la testimonianza di quella vivacità culturale che si avvale di esperienze e risonanze artistiche provenienti da San Vincenzo, da Montecassino e dalla chiesa di Sant’Angelo in Formis, in un territorio che diventa crocevia culturale. Punto di raccordo che trae le radici dalla vicina Campania, dal Lazio e dalla Puglia, dove confluiscono modelli diversi che giungono nelle terre molisane anche tramite l’afflusso di pellegrini e di crociati, gli affreschi di Santa Maria alle Grotte risentono degli apporti orientali, in larga misura balcanici, dovuti agli intensi scambi culturali e commerciali tra le due sponde dell’Adriatico, che si fondono con esperienze di matrice europea mediate dall’ambiente romano e dalla corte angioina napoletana.

Il ciclo della vita di Cristo, come accennato, fa parte della decorazione più antica, presumibilmente realizzata verso la fine del XIII e l’inizio del successivo. Le immagini che si estendono sulla parete rocciosa sembrano condividere la cultura diffusa nelle terre meridionali fortemente caratterizzate da ascendenze tardo-comnene di derivazione balcanica, ma che paiono impregnate di sentori gotici. Le scene dell’Annunciazione e della Presentazione di Gesù al Tempio già si avvalgono dell’influenza del Cavallini, che mediava reminiscenze bizantine con apporti di derivazione assisiate, indicatore di una congiuntura culturale che si andava svolgendo nell’ambiente romano verso la fine del Duecento.

Al XIII secolo si può datare la parete santorale sulla navata maggiore, che appare come una vera e propria iconostasi, gravemente danneggiata dalle scalfitture seicentesche. Le diverse figure, evidentemente ritratte in momenti diversi, mostrano un’unità simbolica più che stilistica. La chiesa sembra attestare la costante presenza dei viatores che per tutto l’arco del Medioevo lasciarono lungo il cammino dei pellegrini i segni della loro devozione nelle chiese e nelle cappelle disseminate nel Mezzogiorno.

Sul muro divisorio, popolato dal folto santorale, disposto su due registri delimitati da cornici rosse, sono inseriti alcuni santi ricordati nella Guida del Pellegrino di Picaud, un testo che risale agli anni trenta del XII secolo. Tra questi: san Leonardo, le cui reliquie sono custodite nel santuario lungo la via Lomisina, e San Giovanni Battista, dove a Saint-Jean d’Angély, nella regione ovest di Charente-Maritime, si conferma la presenza di una parte del cranio del Santo. I pannelli in cui sono raffigurati i santi, racchiusi in riquadri rossi, testimoniano la vivacità del luogo sacro e svolgono precise funzioni devozionali. Le immagini dei santi sauroctoni confermano l’idea della salvazione nella lotta contro le insidie del peccato, come il megalomartire San Giorgio che trafigge il drago, per antonomasia simbolo del male, e Margherita di Antiochia, più volte replicata all’interno della chiesa, conosciuta in Oriente con il nome di Marina, la santa che aveva sconfitto il demonio sotto forma di drago con un solo segno di croce, come tramanda una Passio greca del V-VI secolo, attribuita a Theotimo, e resa celebre nel Medioevo occidentale dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine. Oltre all’immagine nell’oratorio benedettino di Bominaco, nella chiesa rupestre di Santa Maria in Grotta a Rongolise, e nella Grotta di San Michele sul versante meridionale del Monte Monaco di Gioia presso Benevento, a Margherita saranno dedicati cicli agiografici nelle chiese rupestri di Mottola e di Melfi, e sulla volta della chiesa di Santa Maria della Croce a Casaranello presso Lecce, a testimonianza della diffusione del culto della santa in Italia meridionale. La presenza di Maria Maddalena, peccatrice redenta, riconoscibile dal vaso contenente il balsamo, evoca l’umanità penitente e il pellegrino che si reca nei luoghi santi per ottenere il perdono e l’espiazione.

L’immagine di San Cristoforo, per eccellenza protettore dei pellegrini e dei traghettatori, invocato dai viatores e mercanti durante il lungo viaggio, convalida l’ipotesi che la chiesa fosse tappa intermedia delle peregrinationes maiores lungo il percorso della via Francigena attraversata da pellegrini e crociati. Cristoforo, il santo dalla corporatura gigantesca, originario della Licia, che aveva traghettato Cristo da una sponda all’altra del fiume, come narrato dalla Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, diffusore del culto in Occidente, proteggeva i viandanti che intraprendevano viaggi pericolosi. Il Santo, solenne e ieratico, con una veste decorata che riprende i motivi dei tessuti orientali, coperto da un manto rosso stretto da un fermaglio circolare, tipico prodotto dell’oreficeria bizantina, occupa uno spazio maggiore rispetto alle altre immagini. Cristoforo ha il volto barbuto e i capelli lunghi, e riprende i tratti del viso di Cristo seduto sulle sue palle, ispirato ad antiche icone o ad affreschi del Pantocratore, la cui presenza si ripete canonicamente sulle cupole delle chiese greche come nella Sicilia normanna. La mano destra del Santo è sollevata ed il palmo aperto è rivolto verso chi guarda a confermare il suo ruolo di intercessore, mentre la sinistra regge un sottilissimo bastone che lo assimila al pellegrino. L’immagine del Santo in maestose sembianze è riproposta, nella seconda metà del Duecento, a Bominaco, sita in prossimità della via Claudia Valeria che portava a Roma, e nei pressi del tratturo Regio L’Aquila- Foggia, a conferma dell’importanza del culto che viaggia sulle strade dei pellegrini e dei pastori.

Nonostante sia privo di quell’eleganza formale che caratterizza l’immagine di Rocchetta, nella chiesa dedicata a San Pellegrino a Bominaco, ascrivibile ad una corrente pittorica di tipo benedettino, San Cristoforo conferma la sua particolare funzione di accompagnatore e di guida nella fitta rete di itinerari religiosi medievali. Più simile nella posa e nei gesti, ma semplificato nella forma e nella decorazione delle vesti, è il San Cristoforo nella chiesa abbaziale benedettina dei Santi Crisante e Daria, sorta a Filetto nei pressi di Camarda in Abruzzo. San Nicola, con la mano benedicente e gli abiti vescovili, ritratto insieme ad Adeodato, affrescato sulla parte bassa della fascia interna all’arco, ricorda il miracolo effettuato dal Santo che salvò il giovane caduto in mare mentre riempiva d’acqua una coppa, episodio diffuso in Occidente dalla Vita scritta nel X secolo da Giovanni Diacono monaco cassinese. L’affresco conferma non solo la forte spinta devozionale nei confronti del vescovo di Myra, ma è legato all’idea della salvezza e sottende anche un percorso di redenzione in una dimensione soterologica. San Nicola aveva fama di placare le tempeste, veniva evocato dai pellegrini che si imbarcavano per la Terra Santa, anche grazie al racconto tramandato da Michele Archimandrita, noto come Praxis de nautis, che narra del salvataggio di alcuni naviganti che invocarono il Santo durante una tempesta, episodio fra i più diffusi nei cicli agiografici dedicati a san Nicola, a Bisanzio e nell’area balcanica, dove forte è la devozione nei confronti del taumaturgo barese. Simile appare la connotazione dell’immagine di San Mauro con il giovane Placido in vesti diaconali, salvato dalle acque del lago, come narrato nei Dialoghi di Gregorio Magno, ritratto con il Libro sotto il braccio sulla fascia interna dell’arco. Posto al di sotto di Santa Margherita, ed entrambi sul lato sinistro di san Cristoforo, l’immagine di san Mauro che tiene per i cappelli Placido, è legata alla presenza di san Benedetto che racchiuso in preghiera ebbe la visione del giovane diacono mentre cadeva in acqua, e avendo chiamato Mauro quest’ultimo accorse a salvare il giovane camminando sulla superficie del lago. L’immagine di san Mauro e di san Nicola che salva il giovane Adeodato, porterebbero a pensare che gli affreschi fossero dei veri e propri ex voto di pellegrini scampati ai pericoli e alle insidie del mare lungo l’impervio e faticoso cammino verso l’Oriente.

La sequenza santorale inizia sul registro superiore con due santi cavalieri, che appaiono eseguiti in tempi successivi rispetto alle altre immagini. Il primo è identificabile con san Giorgio, che uccide il drago dalle sembianze di serpente, il cui culto dalla Palestina si diffuse largamente in tutto il bacino mediterraneo. Il secondo non presenta alcun attributo o iscrizione che aiuti il riconoscimento. Forse potrebbe identificarsi con san Martino, emulo di san Francesco, ma l’accostamento con san Giorgio è alquanto inusuale, giustificabile se si considera la diffusione del culto del santo nell’ambiente benedettino di San Vincenzo e la tendenza negli affreschi di Santa Maria delle Grotte di affiancare un santo di origine orientale con un santo di tradizione europea. Il santo a cavallo è visibile nella chiesa di Bominaco, dove, come nelle più consuete e frequenti iconografie, è accompagnato dalla presenza del mendicante al quale sta offrendo metà del suo mantello, noto episodio della Vita Martini, scritta dal discepolo Severo Sulpicio.

Le immagini dei Santi cavalieri, il cui culto ebbe origine in Oriente, sono legate ai Crociati, i milites Christi, che, durante l’avanzata verso l’Outremer, erano soliti esibire sui vessilli le effigi dei Santi militari, in cui riflettevano le virtù cristiane dei difensori della fede. Già conosciuta nell’Egitto copto, in Cappadocia, in Georgia e in Armenia, l’immagine del Santo guerriero a cavallo si diffonde a Bisanzio e in area balcanica a partire dal XIII secolo, mentre in Occidente ebbe una forte risonanza nel periodo crociato, come dimostrano le numerose icone eseguite da artisti europei e provenienti dagli atelier latini della Terra Santa. I Santi militari ebbero fortuna fra i soldati di professione, discendenti di antiche stirpe di guerrieri come i Longobardi e i Normanni, che in Occidente furono i maggiori diffusori del culto dei Santi guerrieri, primo fra tutti quello dell’Arcangelo Michele, capo delle milizie celesti, difensore del popolo di Dio e della chiesa, il cui culto nato in Oriente trova nella spelonca garganica il suo luogo ideale. L’immagine di Sant’Ippolito a cavallo nella chiesa di Santa Maria di Monte d’Elio presso Sannicandro Garganico, che vede il santo esibire uno stendardo crociato, trova rispondenza in alcune icone sinatiche del XIII secolo provenienti dalle botteghe latine di Gerusalemme. San Demetrio, il martire di Tessalonica, il cui culto si diffonde sulle rotte dei crociati e dei pellegrini, proprio sulla via Egnatia, che da Durazzo portava a Costantinopoli, passando per Tessalonica, la seconda città dell’Impero, fino a Bisanzio, è solitamente affiancato nell’area balcanica a san Giorgio. Sono affrontati nella cripta di San Biagio a San Vito dei Normanni e nei pressi di Nardò nella chiesa rupestre di Sant’Antonio abate, uno con un cavallo bianco e l’altro scuro. San Francesco con le stimmate e San Benedetto, entrambi con la Regola nella mano sinistra, in una continuità storica che affianca i due ordini simili per spiritualità e geograficamente vicini, definiscono l’ambiente monastico prossimo alla chiesa, quello di Assisi e quello di Montecassino, e creano una filo sacro tra l’Umbria, il Molise e la Campania. Dalla folta barba e i capelli irsuti, il volto scarno ed emaciato, con indosso una pelle d’animale, fra i due santi autoctoni appare l’immagine di Sant’Onofrio, anacoreta di origine orientale, che ancora una volta testimonia la vocazione spirituale che unisce l’Oriente cristiano con l’Occidente, e chiarisce i termini della originaria fondazione eremitica della chiesa benedettina di Rocchetta. La fioritura della spiritualità eremitica nei territori occidentali, rinvigorita dagli ordini Mendicanti, diede avvio ad una fortuna del culto di sant’Onofrio in Europa sulle rotte crociate, anche favorito dalla divulgazione della Vita nella redazione latina attribuita a Pafnunzio. L’immagine del Santo, sempre presente nelle sequenze santorali delle chiese bizantine, ebbe notevole diffusione in Italia centro-meridionale, la sua sacralità ascetica è riconoscibile in San Pellegrino a Bominaco, nella chiesa di Sant’Angelo in Formis, affiancato a Santa Margherita a Rongolise, nella chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio a Corone nel santuario lucano di Santa Maria d’Anglona, nella cripta della basilica di San Nicola a Bari, nella chiesa di Santa Maria Veterana a Bitetto, e nell’area molisana nella chiesa rupestre di Sant’Eramo ad Isernia. Nel Salento, territorio che per secoli ha testimoniato quell’osmosi culturale fra le sponde del Mediterraneo, Onofrio è visibile fra la teoria dei santi nella chiesa di Santa Marina a Muro Leccese, nella chiesa dell’abbazia benedettina di Santa Maria delle Cerrate nei pressi di Squinzano, nella chiesa di Santo Stefano a Soleto e nel ciclo quattrocentesco della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina, dove echi bizantini si fondono a matrici tardogotiche di derivazione napoletana e umbro-marchigiana con chiare ascendenze neogiottesche.

Frammenti di un ciclo di pitture sono ancora visibili sulle pareti della cappella meridionale del presbiterio, realizzate probabilmente tra il XIV e il XV secolo, già voltati verso la cultura tardogotica di matrice campana e marchigiana. In primo luogo è ravvisabile, in un affresco fortemente corrotto, una probabile Adorazione dei Magi. Si riconosce nel lacerto successivo una Presentazione al Tempio, tema iconografico già presente all’interno del sito, sulla parete rocciosa e ripreso in una veste tardogotica, dove una spazialità architettonica conferisce alla scena profondità prospettica. Gli affreschi risentono della componente culturale di derivazione angioina che aveva investito il Mezzogiorno sul finire del Trecento e gli inizi del secolo successivo, dove apporti locali e esperienze provenienti dall’area adriatica avevano dato vita ad una peculiare manifestazione del tardogotico contaminato dalle influenze neogiottesche. La serie di immagini del presbiterio tende a rivelare l’importanza della figura mariana, a cui sembrerebbe dedicato un ciclo sistematico e completo, ormai perduto, a testimonianza della longevità del culto della Madonna delle Grotte, il cui simulacro ligneo medievale è da secoli oggetto di devozione. Questo accompagnava evidentemente l’immagine di Maria in trono, affrescata dietro l’altare maggiore, di cui restano flebili tracce solo della parte inferiore.

La “Madonna Magna”, così come viene chiamata la statua della Madonna delle Grotte, ha subito ridipinture nel corso dei secoli che ne hanno modificato l’aspetto originario, rendendo più difficile una precisa datazione. La Vergine con le braccia in avanti, in atteggiamento orante, tiene il Bambino in piedi sulle ginocchia anch’egli con le braccia aperte. Il busto eretto e slanciato, un sorriso che le addolcisce il volto, la statua della Vergine di Rocchetta sembra stilisticamente prossima ad altre Madonne lignee molisane, come la Madonna della cattedrale di Isernia, e quella di Santa Maria di Canneto a Roccavivara, che mostrano aperture al gotico-angioino. Partecipe di una temperie culturale variegata e ricettiva, il Molise assume il ruolo di cerniera geografica tra nord e sud, e precocemente aperta ad apporti francesizzanti di provenienza angioino-napoletana, ma contemporaneamente pronta a recepire le novità provenienti nelle aree dell’Italia centrale e adriatica tra l’Abruzzo, l’Umbria e le Marche.

La statua della Madonna delle Grotte, la cui datazione può oscillare tra il XIII e il XIV secolo, è da assimilare ad alcune Madonne lignee dell’area umbra e abruzzese, tributarie, secondo De Francovich, dell’arte delle maestranze d’intagliatori tedesco-tirolesi, la cui attività doveva essere assai intensa nei secoli XII e XIII, e riscontrabile nell’Italia centrale nel Crocifisso ligneo della chiesa di San Pietro a Bologna del XII secolo. Prossima alla Madonna delle Grotte è la Madonna di Spello, che iconograficamente deriva dall’immagine della Madonna Nicopoia, largamente diffusa nella pittura bizantina a partire dal V secolo, in cui la Madonna assisa in trono tiene il Bambino in piedi sulle sue ginocchia, immagine più volte replicata nei simulacri lignei diffusi tra l’Abruzzo e la Capitanata. La posizione delle braccia di alcune Madonne lignee romaniche dell’Italia centrale derivano probabilmente da modelli bizantini, e eviprecisamente dalla Madonna orante che allarga le braccia in segno di preghiera e intercessione. De Francovich ritiene invece che fossero ispirate a lavori d’oreficeria e soprattutto a un gruppo di sculture metalliche e ai busti-reliquiari, come la nota statua di Sainte-Foy che protende le braccia rigide (parte del tesoro della chiesa di Conques nell’Alvernia, ed eseguita dal tra il 942 e il 984, ai tempi di Stefano abbate di Conques vescovo di Clermont). Il busto-reliquiario di Sainte Baudime, in ottone dorato e argentato, del XII secolo, nella chiesa di Saint-Nectaire a Puyde- Dome in Alvernia, affine ad altri due busto- reliquiari di Sainte Césaire a Maurs e di San Teofredo a Le Monastier, prodotti nelle officine di Limoges, ricorda assai da vicino la posizione delle braccia della Madonna di Spello, così come quella della Madonna di Rocchetta.

Ancora all’ambito eremitico rimanda l’immagine di San Giovanni Battista a piedi nudi e ricoperto da una corta tunica di pelo di cammello, come appare nelle usuali raffigurazioni greche, a volte raffigurato insieme alla Vergine, entrambi ai lati del Cristo, nelle diffusissime immagini della Deesis bizantina, come speciale intercessore.

La presenza di San Vincenzo di Saragozza, in abiti da diacono, oltre ad attestare la continuità del culto, conosciuto nel Molise anche prima della fondazione della badia, è da porsi chiaramente in relazione con la vicina abbazia benedettina che collega non solo i due poli monastici ma conferma una serie di relazioni culturali. Conclude la parata sul registro superiore il protettore dei prigionieri San Leonardo di Noblac, eremita e abate di Limoges, riconoscibile dalle catene, il cui culto giunse nel Mezzogiorno sulle vie dei pellegrini lungo il cammino di Santiago. Favorito dai Normanni il culto dalla Francia penetrò nella Puglia settentrionale, dove intorno al XII secolo gli fu dedicata una chiesa nei pressi di Siponto, nel tratto meridionale della via Francigena, conosciuta anche come Via Sacra Langobardorum, sul ciglio di una delle vie dirette alla grotta garganica sacra all’Arcangelo, che divenne nel corso del Medioevo un luogo di pellegrinaggio partecipe di quel flusso di peregrinationes sia regionali che europee. Dalla Puglia attraverso i crociati il culto raggiunse la Terra Santa, infatti a Betlemme, su una delle colonne della basilica della Natività, il santo è ritratto in veste di diacono, con il consueto attributo delle catene.

La funzione devozionale della parete santorale di Rocchetta disegna non solo una mappa storica e geografica dei culti dei santi sul cammino della via francigena da Santiago a Gerusalemme, ma intesse una rete di confluenze culturali che vede l’Italia meridionale come crocevia ideale tra l’Europa e l’Outremer. A santi di origine orientale si alternano santi europei. Il culto di santi orientali si diffonderà largamente in Occidente grazie ai Crociati e all’arrivo in Italia delle sacre reliquie, come quelle di san Nicola, di santa Margherita e dello stesso san Giorgio.

Frammenti di un ciclo di pitture sono ancora visibili sulle pareti della cappella meridionale del presbiterio, realizzate probabilmente tra il XIV e il XV secolo, già voltati verso la cultura tardogotica di matrice campana e marchigiana. In primo luogo è ravvisabile, in un affresco fortemente corrotto, una probabile Adorazione dei Magi. Si riconosce nel lacerto successivo una Presentazione al Tempio, tema iconografico già presente all’interno del sito, sulla parete rocciosa e ripreso in una veste tardogotica, dove una spazialità architettonica conferisce alla scena profondità prospettica. Gli affreschi risentono della componente culturale di derivazione angioina che aveva investito il Mezzogiorno sul finire del Trecento e gli inizi del secolo successivo, dove apporti locali e esperienze provenienti dall’area adriatica avevano dato vita ad una peculiare manifestazione del tardogotico contaminato dalle influenze neogiottesche. La serie di immagini del presbiterio tende a rivelare l’importanza della figura mariana, a cui sembrerebbe dedicato un ciclo sistematico e completo, ormai perduto, a testimonianza della longevità del culto della Madonna delle Grotte, il cui simulacro ligneo medievale è da secoli oggetto di devozione. Questo accompagnava evidentemente l’immagine di Maria in trono, affrescata dietro l’altare maggiore, di cui restano flebili tracce solo della parte inferiore.

Fonte: ArcheoMolise N°33 – ANNO X – Articolo di FRANCESCO CAVALIERE
Diritti d’autore: Associazione Culturale ArcheoIdea

  


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