Come premessa si ritengono utili alcune
riflessioni sul fenomeno della "lingua sacra". La lingua è
più che un semplice mezzo di comunicazione; è anche un mezzo di
espressione. Questo vuol dire che la lingua non è soltanto uno
strumento che serve per comunicare fatti, e deve farlo nel modo più
semplice ed efficiente, ma è anche il mezzo per esprimere la nostra
mens in un modo che coinvolga tutta la persona.
Di conseguenza, la lingua è anche il
mezzo in cui si esprimono i pensieri e le esperienze religiosi. Si è
consapevoli della trascendenza del divino e, allo stesso tempo, delle
sua presenza, una presenza che è reale a incomprensibile. Ci sono
forme estreme per esprimere questa esperienza, "parlare in
lingue" e "silenzio mistico". Parlare in lingue o
glossolalia è un fenomeno noto a noi dalla Prima Lettera di San
Paolo; esso ha avuto una ripresa negli ultimi cento anni nei
movimenti carismatici e si trova anche in altre tradizioni religiose,
tra cui, per esempio, l'Oracolo di Delfi. La glossolalia rende
impossibile la comunicazione umana. La persona che parla "in
lingue" può essere compresa solo con l'aiuto di un interprete.
Perciò, San Paolo ha riserve sulla glossolalia e preferisce la
"profezia", che è nel servizio della Carità ed edifica la
Chiesa (1Cor 14). Nel silenzio mistico è esclusa la comunicazione
umana ordinaria, come mostra l'esperienza condivisa da Sant'Agostino
e da sua madre Santa Monica ad Ostia, descritta nel libro IX delle
Confessioni.
La lingua sacra non si spinge fino alla
glossolalia ed al mistico silenzio, escludendo completamente la
comunicazione umana, o almeno tentando di farlo. Tuttavia, si riduce
l’elemento della comprensibilità a favore di altri elementi, in
particolare quello espressivo. Christine Mohrmann, la grande storica
del latino dei cristiani, propone che la lingua sacra è un modo
specifico di “organizzare” l’esperienza religiosa. Infatti, la
Mohrmann sostiene che ogni forma di credere nella realtà
soprannaturale, nell’esistenza di un essere trascendente, conduce
necessariamente all’adozione di una forma di lingua sacra nel
culto, mentre un laicismo radicale porta a respingere ogni forma di
essa. In tal senso, il Cardinale Albert Malcolm Ranjith ha ricordato
in un’intervista: «L’uso di una lingua sacra è tradizione in
tutto il mondo. Nell’Induismo la lingua di preghiera è il
sanscrito, che non è più in uso. Nel Buddismo si usa il Pali,
lingua che oggi solo i monaci buddisti studiano. Nell’Islam si
impiega l’arabo del Corano. L’uso di una lingua sacra ci aiuta a
vivere la sensazione dell’al-di-là» (La Repubblica, 31 luglio
2008, p. 42).
Le lingue non esistono in un vuoto, ma
nel contesto di un sistema strutturato, che è determinato da una
serie di fattori (sociali, culturali, psicologici, etc... ). La
ricerca linguistica parla di "contesti", "situazioni",
"registri", "giochi linguistici" o "lingue
speciali". La lingua sacra è il mezzo di espressione non solo
degli individui, ma di una comunità che segue le sue tradizioni. Le
sue forme linguistiche sono tramandate di generazione in generazione;
sono spesso deliberatamente stilizzate e rimosse dal linguaggio
contemporaneo. Troviamo un simile fenomeno nel campo della
letteratura, con la "Homerische Kunstsprache", il
linguaggio stilizzato dei poemi epici di Omero con le sue forme
arcaiche. La lingua dell'Iliade e dell'Odissea che si trova anche in
Esiodo e nelle iscrizioni poetiche, non è mai stata una lingua
utilizzata nella vita quotidiana.
Con la Mohrmann, si possono indicare
tre caratteristiche della lingua sacra o, come essa dice, della
lingua "ieratica".
In primo luogo, la lingua sacra è
conservatrice: mantiene le forma linguistiche arcaiche con
tenacia.
In secondo luogo sono introdotti elementi esterni come
associazioni ad un'antica tradizione religiosa. Un caso paradigmatico
è il vocabolario biblico ebraico nel latino usato dai cristiani.
Sant'Agostino osserva su questo punto del suo trattato De Doctrina
cristiana: «È noto che nei libri sacri troviamo anche parole
ebraiche che non sono state tradotte [...]. Di queste alcune furono
conservate nell'antica origine per il prestigio di particolare
santità (propter sanctiorem, auctoritatem), sebbene le si potesse
tradurre. Tali sono 'Amen' 'Alleluia'. Altre parole si dice che non
possono essere tradotte in altra lingua [...]. Questo accade
soprattutto per le interiezioni, che esprimono un moto dell'animo
piuttosto che una parte, sia pur piccola, di frase concepita con la
mente. Tra gli esempi forniti da Sant'Agostino, troviamo 'osanna'
[espressione] di uno in preda alla gioia».
In terzo luogo, la
lingua sacra utilizza figure retoriche che sono tipiche dello stile
orale, come parallelismo e antitesi, clausulæ, rima, allitterazione.
Il testo della preghiera eucaristica, o
anafora, è stato relativamente fluido nei primi tre secoli. La sua
formulazione esatta non era ancora fissata, ed il celebrante aveva un
certo spazio di improvvisazione. Tuttavia, come Allan Bouley rileva
nel suo saggio From Freedom to Formula, si possono identificare le
convenzioni che regolavano la struttura ed il contenuto dell'anafora
già nel II secolo. La preghiera eucaristica non era lasciata al
capriccio del sacerdote celebrante. Nel III secolo e forse anche
prima, alcuni testi anaforici esistevano già in modo scritto.
Perciò, Bouley parla di un clima di libertà controllata, cioè
limitata alle esigenze di ortodossia. Questo bisogno è diventato
particolarmente pressante durante le lotte dottrinali del IV secolo;
in questa epoca sono nate le grandi preghiere eucaristiche, come il
Canone Romano e l'Anafora di S. Giovanni Crisostomo. C'è un altro
aspetto importante di questo sviluppo, che è rivelato da Christine
Mohrmann: la libertà di improvvisare esisteva solo in un quadro di
elementi fissi di contenuto e di stile, che è stato, soprattutto,
ispirato dalle Sacre Scritture. Nella liturgia cristiana, la
primitiva tradizione di improvvisazione orale in preghiera
contribuiva a creare uno stile sacro. Un simile fenomeno può essere
osservato nei primi poemi epici greci: la libertà dei cantanti di
improvvisare su un dato materiale ha portato a un linguaggio
stilizzato. Come nota la Mohrmann: «In particolare in Occidente,
dove la composizione libera rimaneva in vigore per molto tempo in
alcune parti della liturgia, è proprio questo sistema che portava ad
un marcato stile tradizionale di preghiera».
La Mohrmann introduce una distinzione
utile tra lingue sacre di un tipo "primario" e di un tipo
"secondario". Lingue sacre "primarie" si sono
formate come tali fin dall'inizio; per esempio, la lingua degli
oracoli greci, che segue il modello del linguaggio omerico. Lingue
sacre "secondarie" sono quelle che sono state percepite
come tali nel corso del tempo. Le lingue usate nel culto cristiano
sembrerebbero cadere in questa categoria: il greco nella tradizione
bizantina; il siriano nel patriarcato di Antiochia e nella Chiesa
d'Oriente ("nestoriana"), con le sue missioni arrivate fino
all'India e alla Cina: l'armeno, il georgiano, il copto, l'etiopico,
il paleoslavo ed il latino di Rito Romano e delle altre tradizioni
liturgiche occidentali.
In tutte queste lingue si trovano forme
di stile che le separano dalla lingua "ordinaria" ovvero
popolare. Molte volte, questo distacco è conseguenza degli sviluppi
linguistici nel linguaggio comune, che poi non sono stati adottati
nella lingua liturgica a causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel
caso del latino come lingua della liturgia romana, un certo distacco
esisteva sin dall'inizio: i romani non parlavano nello stile del
Canone o delle orazioni della Messa. Appena il greco è stato
sostituito dal latino nella liturgia romana, un linguaggio stilizzato
è stato creato come mezzo di culto.
Dal greco al latino: la lingua della
liturgia romana
L'unità culturale e politica del mondo
mediterraneo fu un fattore provvidenziale nella diffusione della fede
cristiana. In particolare, la diffusione della lingua greca nei
centri urbani dell'Impero Romano favorì l'annuncio del Vangelo. Il
greco parlato a Oriente e Occidente non era l'idioma classico, bensì
la koiné semplificata, il linguaggio comune delle varie nazioni
della parte orientale del mondo mediterraneo: Grecia, Asia Minore,
Siria, Palestina ed Egitto. La koiné greca era anche la lingua del
proletariato urbano in Occidente che vi era emigrato dai territori
orientali dell'Impero. Roma era divenuta una città multi-etnica e
multi-culturale. In essa viveva anche una consistente popolazione
ebraica, che sembra parlasse principalmente il greco.
La lingua delle prime comunità
cristiane a Roma era il greco. Ciò risulta evidente dalla Lettera ai
Romani di san Paolo e dalle prime opere letterarie cristiane che
videro la luce a Roma, per esempio la Prima Lettera di san Clemente,
il Pastore di Erma e gli scritti di san Giustino Martire. Nei primi
due secoli si avvicendarono numerosi Papi con nomi greci e le
iscrizioni tombali cristiane erano composte in greco. Durante questo
periodo, greca era anche la lingua comune della liturgia romana. Lo
spostamento verso il latino non cominciò a Roma, ma nell'Africa
settentrionale, dove i convertiti al Cristianesimo erano, in
maggioranza, nativi di lingua madre latina, piuttosto che immigrati
di lingua greca.
Verso la metà del III secolo questa
transizione era molto avanzata: membri del clero romano scrivevano a
san Cipriano di Cartagine in latino; latina era anche la lingua in
cui Novaziano compose il suo De Trinitate e le sue altre opere,
citando una versione latina esistente della Sacra Scrittura.
Sembrerebbe che nella seconda metà del III secolo il flusso
immigratorio dall'Oriente verso Roma diminuisse. Questo cambio
demografico comportò un peso crescente dei membri di madre lingua
latina nella vita della Chiesa di Roma. Ciononostante il greco
continuò ad essere usato nella liturgia romana, almeno in parte,
fino alla seconda metà del IV secolo, come sì evince da una
citazione greca della preghiera eucaristica nell'autore latino Mario
Vittorino, risalente al 360.
Intorno a quell'epoca, comunque, la
transizione al latino era in fase molto avanzata; ciò risulta molto
evidente da un autore altrimenti sconosciuto che scrive fra il 374 e
il 382, il quale sostiene che la preghiera eucaristica a Roma si
riferisce a Melchisedek come "summus sacerdos" - un titolo
che ci suona familiare dal più tardo Canone della Messa.
La fonte più importante per la storia
della prima liturgia latina è sant'Ambrogio di Milano. Nel suo De
Sacramentis, una serie di catechesi per i neo-battezzati tenute
intorno al 390, egli cita estesamente la preghiera eucaristica usata
a quell'epoca a Milano. I passaggi citati sono le forme più antiche
delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra
quae, e Supplices te rogamus del Canone Romano. Altrove, nel De
Sacramentis, sant'Ambrogio sottolinea il suo desiderio di seguire
l'uso della Chiesa Romana in tutto; per questa ragione, possiamo
ritenere con certezza che questa preghiera eucaristica fosse di
origine romana". Anche nei sermoni di san Zeno, Vescovo di
Verona dal 362 al 372, ci sono tracce che attestano la diffusione
geografica di questa forma originaria del Canone Romano. La
formulazione letterale delle preghiere citate da Ambrogio non è
sempre identica al Canone che san Gregorio Magno stabilì alla fine
del VI secolo ed è giunto fino a noi con poche modifiche di scarso
rilievo rispetto ai libri liturgici più antichi, specialmente il
Sacramentario Gelasiano Antico, risalente alla metà dell'VIII
secolo, ma ritenuto eco di usi liturgici più antichi. In ogni caso
le differenze fra questi due testi sono molto inferiori alle loro
somiglianze, dato che i quasi trecento anni intercorrenti fra di essi
furono un periodo di intenso sviluppo liturgico. Il passaggio dal
greco al latino nella liturgia romana avvenne gradualmente e fu
completato sotto il pontificato di san Damaso (366-384). I Salmi
erano stati cantati in latino sin dalle origini e l'antica versione
usata nella liturgia aveva acquisito una tale aura di sacralità che
san Girolamo la corresse soltanto con molta cautela. In seguito egli
tradusse il Salterio dall'ebraico non per uso liturgico, come disse,
ma per fornire un testo agli studiosi e al dibattito.
Secondo Ottato di Milevi, scrivente
intorno al 360, c'erano più di quaranta chiese a Roma prima
dell'editto di Costantino. Se questa informazione è corretta,
sarebbe ragionevole opinare che ci fossero già nel III secolo, se
non prima, comunità cristiane nell'Urbe che celebravano la liturgia
in latino, in particolare per quanto riguarda la lettura della Sacra
Scrittura. La Mohrmann suggerisce che la liturgia battesimale fosse
tradotta in latino sin dal Il secolo. Nessuna certezza si può avere
su questo punto, ma è chiaro che ci fu un periodo di transizione che
terminò nella seconda parte del IV secolo, quando la liturgia a Roma
fu di solito celebrata in latino, con l'eccezione di poche
reminiscenze dell'uso più antico, come il kyrie eleison nell'Ordo
Missae e le letture in greco nella Messa Papale.
Mohrmann introduce una distinzione
utile fra: (a) "testi di preghiera", dove la lingua è
soprattutto un mezzo di espressione, (b) testi "destinati a
essere letti, cioè l'Epistola e il Vangelo", e (c) "testi
confessionali", come il Credo. Nei testi di preghiera ci si
trova di fronte a modi diversi di esprimersi; negli altri
primariamente a forme di comunicazione. Recenti ricerche su lingua e
rito, come l'opera di Catherine Bell, confermano l'intuizione della
Mohrmann che la lingua abbia differenti funzioni in differenti parti
della liturgia, oltre la mera comunicazione o informazione.. Queste
riflessioni ed ipotesi ci aiutano a capire lo sviluppo della liturgia
romana: quelle parti in cui gli elementi di comunicazione erano
prevalenti, come la lettura delle Scritture, furono tradotte prima,
mentre la preghiera eucaristica continuò ad essere recitata in greco
per un periodo molto più lungo.
Per quanto riguarda la questione del
perché la transizione verso una liturgia latina a Roma sia avvenuta
relativamente tardi, sono state date molte risposte e c'è qualcosa
da dire per ciascuna di esse. Theodor Klauser attribuiva ciò al
generale conservatorismo dei Romani e alla loro tenacia nel mantenere
le tradizioni religiose, tenacia che prevaleva anche nella Chiesa
Romana. Secondo Allan Bouley, la necessità di una lingua che esprima
la fede cattolica in modo preciso, che emerse soprattutto durante la
crisi ariana del IV secolo, generò il fermento per la creazione di
una forma latina ufficiale delle preghiere della Messa. La tesi di
Bouley che fosse la necessità di preghiere ortodosse ad accelerare
la creazione di riti latini è certamente giustificata dagli sforzi
di sant'Ambrogio tesi a formulare la fede ortodossa in inni e
preghiere liturgiche contro il contemporaneo arianesimo delle tribù
barbariche. La Mohrmann sostiene che la formazione del latino
liturgico divenne possibile solo dopo l'Editto dell'imperatore
Costantino. Venne meno allora il forte bisogno delle comunità
cristiane di definire se stesse in opposizione alla cultura pagana
circostante. La nuova condizione di tranquillità dette alle Chiese
locali in occidente maggiore libertà di attingere, almeno per scopi
formali, non di contenuti, all'eredità religiosa di Roma per lo
sviluppo delle loro liturgie.
La "sociolinguistica" - una
disciplina accademica relativamente nuova - mette in guardia dal
fatto che la scelta di una lingua rispetto ad un'altra non è mai
questione neutrale o trasparente. Di conseguenza è importante
considerare il cambio dal greco al latino nella liturgia romana nei
suoi contesti storici, sociali e culturali. Gli storici
dell'antichità hanno indicato che la formazione della lingua latina
liturgica fece parte di uno sforzo a largo raggio di
cristianizzazione della cultura e della civiltà romana. Nella
seconda metà del IV secolo i Vescovi più influenti in Italia,
soprattutto san Damaso a Roma e sant'Ambrogio a Milano, erano
impegnati a cristianizzare la cultura dominante dei loro giorni.
Nella città di Roma c'era una forte presenza pagana e specialmente
l'aristocrazia continuava ad aderire ai vecchi costumi, anche se
nominalmente erano divenuti cristiani. Roma non era più il centro
del potere politico, ma la sua cultura continuava ad avere radici
nella mentalità delle sue élites. Il IV secolo è ora considerato
un periodo di rinascimento letterario, con un rinnovato interesse per
i"classici" della poesia e della prosa romane. Gli
imperatori del IV secolo coltivarono questa latinitas, e ci fu una
riscoperta del latino anche ad Oriente. Con tenacia caratteristica,
Roma mantenne le sue antiche tradizioni.
Come riposta, i Papi del tardo IV
secolo cominciarono un progetto consapevole e comprensivo di
appropriare i simboli della civiltà romana da parte della fede
cristiana. Parte di questo tentativo fu l'appropriazione di spazio
pubblico tramite impegnativi progetti edilizi. Dopo che gli
imperatori della dinastia di Costantino avevano dato il via con le
monumentali basiliche del Laterano e san Pietro, come pure con le
basiliche dei cimiteri fuori delle mura urbane, si svolgeva un
programma edilizio che avrebbe trasformato Roma in una città
dominata da chiese. Il progetto più prestigioso fu la costruzione di
una nuova basilica dedicata a san Paolo sulla Via Ostiense,
sostituendo il piccolo edificio costantiniano con una nuova chiesa
simile per dimensioni a san Pietro. Un altro aspetto importante fu
l'appropriazione del tempo pubblico con un ciclo di feste cristiane
lungo il corso dell'anno al posto delle celebrazioni pagane (vedi il
calendario Filocaliano dell'anno 354). La formazione del latino
liturgico fece parte di questo sforzo di evangelizzare la cultura
classica.
Lo sviluppo di una liturgia latina non
fu una semplice adozione della lingua "vernacolare" nella
liturgia, dato che il latino del Canone Romano, delle collette e dei
prefazi della Messa, fu distaccato dall'idioma della gente comune.
Essa era una lingua fortemente stilizzata che un cristiano medio
della Roma della tarda antichità avrebbe capito con difficoltà,
considerato specialmente il fatto che il livello di istruzione era
molto basso rispetto ai nostri tempi. Inoltre lo sviluppo della
latinitas cristiana può avere reso la liturgia più accessibile alla
gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a coloro la cui lingua
madre era il gotico, il celtico, l'iberico o il punito. È possibile
immaginare una Chiesa Occidentale con lingue locali nella sua
liturgia, come in Oriente, dove, in aggiunta al greco, erano usati il
siriaco, il copto, l'armeno, il georgiano e l'etiopico. Ad ogni modo
la situazione in Occidente era fondamentalmente differente; la forza
unificatrice del Papato era tale che il latino era diventato l'unica
lingua liturgica. Questo fu un fattore importante per favorire la
coesione ecclesiastica, culturale e politica. La latinitas divenne
uno dei fondamenti dell'Occidente.
In seguito, si desidera presentare
alcune caratteristiche del latino liturgico, prendendo gli esempi dal
Canone della Messa. Si possono meglio distinguere gli stilemi del
Canone se si confrontano il testo stabilito nel Sacramentario
Gelasiano Antico, risalente alla metà dell'VIII secolo, ma ritenuto
un'eco di usi liturgici più antichi, in particolare con la forma più
antica della preghiera eucaristica, attestata nel trattato De
Sacramentis di sant'Ambrogio nel tardo IV secolo. Le differenze fra
ambedue sono notevolmente inferiori alle loro somiglianze - i quasi
trecento anni intercorrenti fra essi furono un periodo di intenso
sviluppo liturgico - comunque sono significative della maturazione
dello stile romano cristiano di preghiera. Un consistente sviluppo
nella sintassi della versione gelasiana la sostituzione di un periodo
composto da un periodo complesso. Nel testo ambrosiano, le singole
sezioni della preghiera eucaristica non hanno una stretta connessione
grammaticale con la sezione precedente. Tuttavia, nella revisione
ulteriore, le singole preghiere sono state collegate con una
congiunzione relativa. Per esempi "Fac nobis hanc oblationem
scriptam, rationabilem, acceptabilem" è stato cambiato in "Quam
oblationem tu, Deus, in omnibus quaesumus, benedictam, adscriptam,
ratam, rationabilem acceptabilemque facere digneris" ("Questa
offerta tu, o Dio, degnati di benedirla, gradirla, ratificarla,
renderla perfetta e degna di piacerti"). "Tu, Deus" e
"in omnibus" sono abbellimenti stilistici, che rendono la
forma di preghiera più arrotondata e scorrevole. Il verbo "dignare"
è tratto dallo stile curiale e si trova spesso nella corrispondenza
papale. Nella sezione Quam oblationem del Canone si trova anche una
serie di sinonimi o quasi-sinonimi. Questa è una caratteristica
dello stile eucologico romano che è già presente nella forma più
antica di questa preghiera: "Et petimus et precamur"
("chiediamo e preghiamo"). Il raddoppio del verbo e
l'allitterazione sono tipici di preghiere pagane, dove si trovano le
formule come "do dedicoque" Un esempio notevole per l'uso
di aggettivi con significato simile si ritrova nel testo ambrosiano,
dove ci sono tre aggettivi che reggono il sostantivo oblationem:
scriptam, rationabilem, acceptabilem. Nella forma stabilita del
Canone Romano (sezione Quam oblationem) il loro numero è aumentato a
cinque: benedictam, adscriptam, ratam, rationabilem, acceptabilemque.
Questo accumulo di aggettivi che sono praticamente sinonimi
contribuisce a rendere il linguaggio della preghiera più solenne ed
efficace. Si desidera segnalare anche l'uso di termini giuridici,
come "ratam" ("ratificata"). Un'altra catena di
aggettivi è utilizzata nella preghiera di anamnesi dopo la
consacrazione, che nella versione ambrosiana recita: "Offerimus
tibi hanc immaculatam hostiam, rationabilem hostiam, incruentam
hostiam, hunc panem sanctum et calicem vitae aeternae". La
sequenza di aggettivi e l'uso di asindeto sono molto tipici di
preghiere romane pagane. Nel Canone gelasiano, questa frase è
modificata in "offerimus praeclarae maiestati tue de tuis donis
ac datis hostiani puram, hostiam sanctam, hostiam immaculatam, panem
sanctum uitx aeterno et calicem salutis perpetuae" ("offriamo
alla tua gloriosa maestà, tra i doni che ci hai dato, la vittima
pura, la vittima santa, la vittima immacolata, pane santo della vita
eterna, e calice dell'eterna salvezza").
Ci sono varie altre caratteristiche
interessanti in questa parte del Canone: per esempio, il semplice
"tibi" di sant'Ambrogio è sostituito con "praeclaræ
maiestati tue" ("tua gloriosa maestà"),
un'espressione derivata dallo stile curiale. La frase "de tuis
donis ac datis" ha un parallelo nell'Anafora di san Giovanni
Crisostomo, nella preghiera dopo l'anamnesi, "le cose tue da ciò
che è tuo a te offriamo, in tutto e per tutto.
Un elemento tipico del Canone romano è
il suo ritmo di prosa. Secondo la tradizione classica della retorica,
il ritmo è un fattore importante della struttura e della bellezza di
un testo in prosa. Aristotele afferma che la prosa non dovrebbe
essere metrica, ma allo stesso tempo non deve essere senza ritmo.
Quella senza ritmo è "illimitato", e quindi non piacevole
agli uditori. Di conseguenza, Aristotele prevede che ogni parte della
frase dovrebbe avere un certo ritmo. Anche Cicerone apprezza la
funzione del ritmo nella prosa. ma si limita alle parti più
importanti del colon, che è l'inizio e la fine di un periodo. Nella
tradizione retorica latina che fa riferimento a Cicerone e
Quintiliano, la fine o clausula era diventata la parte più
importante di una frase costruita secondo i principi ritmici. Quasi
tutti i Padri della Chiesa ricevevano un'educazione secondo la
retorica classica e facevano uso delle sue regole. Pertanto, non è
sorprendente, se si trovi l'uso di clausulæ nelle prediche e scritti
di autori come sant'Agostino o san Leone Magno. Sant'Agostino discute
anche l'uso di clausulæ nel IV libro del suo De doctrina christiana,
che si occupa del modo in cui un predicatore dovrebbe fare uso di
retorica.
Per la mens tardo-antica, l'uso delle
clausulæ, o "cursus" nella terminologia medievale, è una
cosa quasi naturale nella liturgia, perché è la preghiera pubblica
della Chiesa. Le clausulæ sono una caratteristica delle composizioni
liturgiche romane dalla fine del IV secolo fino alla metà del VII,
in particolare nelle orazioni risalenti a questo periodo. Il fatto
che si trovano 22 clausulæ nel Canone gelasiano dimostra che la
formazione di clausulæ era caratteristica dello sviluppo stilistico
della preghiera eucaristica: se ne trovano sette nelle parti centrali
della versione definitiva, rispetto ad una sola nel corrispondente
testo ambrosiano, Allo stesso tempo, il numero di clausulæ. Nel
Canone gelasiano, che è una preghiera di notevole lunghezza, è
bassa in confronto con la loro frequenza nelle orazioni. Quindi si
può concludere che il Canone sia stato rivisto non molto tempo dopo
la sua prima apparizione intorno all'anno 390, nel De Sacramentis di
sant'Ambrogio, e prima del periodo della composizione delle orazioni,
che sembra cominciare a metà del V secolo.
Questa discussione delle clausulæ
ritmiche è semplificata, perché non prende in considerazione la
quantità di sillabe, su cui si basa il metro classico. Verso la fine
del IV secolo, la distinzione quantitativa di sillabe non è più
presente nella lingua parlata; l'elemento determinante è diventato
l'accento qualitativo sulla sillaba, come nelle lingue moderne. Così,
un nuovo tipo di versificazione ritmica secondo il numero di sillabe
ed il collocamento di accenti ha iniziato a manifestarsi. Uno dei
primi esempi fu il cosiddetto Psalmus contra partem Donati di
sant'Agostino.
Si ritiene utile mostrare la funzione
retorica delle clausulæ nella preghiera Supplices te rogamus. Come
suggerito dal filologo ungherese Zoltàn Rihmer, secondo i grammatici
del tardo antico, in "sumpserimus" sembra che l'accento
fosse sulla seconda sillaba dalla fine, non sulla terza, come hanno
stabilito gli umanisti del Rinascimento, che hanno formato la nostra
comprensione del latino. Le due clausulæ "sànguinem
sumpserímus" e "gràtia repleàmur" (il cursus velox,
con l'accento sulla seconda e sulla settima sillaba dalla fine)
quindi formarono un bel parallelismo alla fine della preghiera,
sottolineando la richiesta di godere dei frutti soprannaturali della
comunione sacramentale: "Ut quotquot ex hac altaris
participatione sacrosanctum Fili tui Corpus et Sànguinem
sumpserímus, omni benedictione caelesti et gràtia repleámur".
Perché ogni volta che in questa
partecipazione dell'altare riceveremo il sacrosanto Corpo e Sangue
del tuo Figlio, siamo colmati di ogni benedizione celeste e grazia.
Si noti che non si trovano clausulæ
nella narrazione dell'istituzione dell'Eucaristia. Ciò suggerisce
che questa parte della preghiera non fu rivista secondo le regole
della retorica come le altre parti. Il sacrosanto carattere della
narrazione, con le parole proprie del Signore, giustificherebbe
questa reticenza.
Il Canone della Messa richiama lo stile
di preghiera pagana compresi i suoi elementi giuridici, ma il suo
vocabolario e il contenuto è tipicamente cristiano, anzi biblico. La
Mohrmann vede il latino liturgico come una fortuita combinazione di
un rinnovamento del linguaggio, ispirato alla novità della
rivelazione cristiana, ed una tradizione stilistica che è stata
fermamente radicata nel mondo romano. La formazione di questa lingua
sacra faceva parte di un impegno globale per evangelizzare la cultura
classica, che ha costituito la base della civiltà cristiana. Il
latino liturgico ha la gravitas romana ed evita l'esuberanza dello
stile di preghiera dell'Oriente cristiano, che si ritrova anche nella
tradizioni gallicana.
L’uso di una lingua sacra nella
celebrazione liturgica fa parte di ciò che san Tommaso d’Aquino
nella Summa Theologiae chiama la solemnitas. Il Dottore Angelico
insegna: «Ciò che si trova nei sacramenti per istituzione umana non
è necessario alla validità del sacramento, ma conferisce una certa
solennità, utile nei sacramenti a eccitare la devozione e il
rispetto in coloro che li ricevono» (Summa Theologiae III, 64, 2;
cf. 83, 4). La questione del latino va considerata da questa
prospettiva.
La lingua sacra, essendo il mezzo di
espressione non solo degli individui, ma di una comunità che segue
le sue tradizioni, è conservatrice: mantiene le forme linguistiche
arcaiche con tenacia. Inoltre, vengono introdotti in essa elementi
esterni, in quanto associazioni ad un’antica tradizione religiosa.
Un caso paradigmatico è il vocabolario biblico ebraico nel latino
usato dai cristiani (amen, alleluia, osanna ecc.), come ha osservato
già sant’Agostino (cf. De doctrina christiana II, 34-35 [11,16]).
Lungo la storia, si è adoperata
un’ampia varietà di lingue nel culto cristiano: il greco nella
tradizione bizantina; le diverse lingue delle tradizioni orientali,
come il siriaco, l’armeno, il georgiano, il copto e l’etiopico;
il paleoslavo; il latino del rito romano e degli altri riti
occidentali. In tutte queste lingue si trovano forme di stile che le
separano dalla lingua “ordinaria” ovvero popolare. Spesso questo
distacco è conseguenza degli sviluppi linguistici nel linguaggio
comune, che poi non sono stati adottati nella lingua liturgica a
causa del suo carattere sacro. Tuttavia, nel caso del latino come
lingua della liturgia romana, un certo distacco è esistito sin
dall’inizio: i romani non parlavano nello stile del Canone o delle
orazioni della Messa. Appena il greco è stato sostituito dal latino
nella liturgia romana, è stato creato come mezzo di culto un
linguaggio fortemente stilizzato, che un cristiano medio della Roma
della tarda antichità avrebbe capito non senza difficoltà. Inoltre,
lo sviluppo della latinitas cristiana può avere reso la liturgia più
accessibile alla gente di Roma o Milano, ma non necessariamente a
coloro la cui lingua madre era il gotico, il celtico, l’iberico o
il punico. Comunque, grazie al prestigio della Chiesa di Roma e la
forza unificatrice del papato, il latino divenne l’unica lingua
liturgica e così uno dei fondamenti della cultura in Occidente.
La distanza fra il latino liturgico e
la lingua del popolo divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e
delle lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di
missione. Questa situazione non favoriva la partecipazione dei fedeli
nella liturgia e perciò il Concilio Vaticano II volle estendere
l’uso del vernacolo, già introdotto in una certa misura nei
decenni precedenti, nella celebrazione dei sacramenti (Costituzione
sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, art. 36, n. 2). Allo
stesso tempo, il Concilio ha sottolineato che «l’uso della lingua
latina […] sia conservato nei riti latini» (ibid., art. 36, n. 1;
cf. anche art. 54). Comunque, i Padri conciliari non immaginavano che
la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata totalmente
sostituita dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto
cattolico si è spinta così oltre, che molti fedeli oggi possono a
stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può
notare nelle riunioni internazionali a Roma e altrove. In un’epoca
contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua
liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e
culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro
spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti
secoli. Senz’altro il latino contribuisce al carattere sacro e
stabile «che attrae molti all’antico uso», come scrive il Santo
Padre Benedetto XVI nella sua Lettera ai Vescovi, in occasione della
pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007).
Con l’uso più ampio della lingua latina, scelta del tutto
legittima, ma poco usata, «nella celebrazione della Messa secondo il
Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di
quanto non lo è spesso finora, quella sacralità» (ibid.).
Infine, è necessario preservare il
carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacolare,
come fa notare con esemplare chiarezza l’Istruzione della
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
sulla traduzione dei libri liturgici Liturgiam authenticam del 2001.
Un frutto notevole di questa istruzione è la nuova traduzione
inglese del Missale Romanum che verrà introdotta in molti paesi
anglofoni nel corso di quest’anno.
Il latino liturgico fu sin dai primordi
una lingua sacra distaccata da quella del popolo; tuttavia la
distanza divenne maggiore con lo sviluppo delle culture e delle
lingue nazionali in Europa, per non menzionare i territori di
missione. Il Concilio Vaticano II volle risolvere la questione
estendendo l'uso del vernacolo nella liturgia, soprattutto nelle
letture. Allo stesso tempo, esso sottolineò che "l'uso della
lingua latina [...] sia conservato nei riti latini". I Padri
conciliare non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa
Occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. In un'epoca
contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua
liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e
culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro
spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti
secoli.
Il Santo Padre nota nella sua lettera
ai Vescovi in occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum
Pontificum che "le due forme dell'uso del Rito Romano possono
arricchirsi a vicenda", suggerendo: "Nella celebrazione
della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in
maniera perì forte di quanto non lo è stato spesso finora, quella
sacralità che attrae molti all'antico uso. Ciò è molto
significativo: il Santo Padre propone che la celebrazione della
"forma ordinaria" del Rito Romano sarà sempre più
ispirata dal carattere sacro e stabile della "forma
straordinaria".