(photo by Alessandro Franzoni)
"Perchè amo il Rito tradizionale?" In risposta ad un sacerdote che mi rivolgeva tale domanda, ho scritto una risposta piuttosto articolata, che oso credere meritevole di lettura e che presento qui arricchita da alcune note.
«Innanzitutto, padre, la ringrazio per la serena curiosità priva di pregiudizi: ciò le rende veramente onore dal punto di vista e umano e pastorale.
Per parte mia vorrei fugare l’idea che il rito antico sia un rifugio dalla cattiva celebrazione del rito nuovo. La scelta dell’antica liturgia avviene per ragioni che ritengo fondate sull’oggettività del rito, che lo portano quanto a corrispondere o meno a delle preferenze personali di base che sono innate o sviluppate lungo la crescita della persona, e lo scelgo a parità di correttezza e solennità della celebrazione: ad una messa solenne in latino e canto gregoriano celebrata secondo il messale di Paolo VI dall’abate di Solesmes preferisco la stessa messa celebrata secondo il messale antico dall’abate del Barroux o di Norcia, alla messa bassa (recitata) celebrata devotamente in una intima cappella da un bravo sacerdote preferisco quella tridentina celebrata allo stesso modo dallo stesso bravo sacerdote.
Rinvengo nel rito antico due ordini di aspetti che lo rendono migliore: quelli dal punto di vista del contenuto del rito (trovo quindi che il rito antico – messa, ufficio divino, sacramenti, sacramentali – permetta una più ricca e completa esposizione dei misteri divini e dei tesori della spiritualità occidentale: ciò non significa che il rito nuovo ne sia del tutto privo, ma solo che ne sia meno ricco), e quelli dal punto di vista della sua adequazione all’intima natura umana. Il rito antico (di nuovo, dalla messa ai sacramentali) ha una perfetta organicità che, essendosi sviluppata lungo almeno quindici secoli, è capace di parlare a quegli aspetti costanti e profondi della natura, che non cambiano lungo il corso della storia (per questo, credo, la liturgia tradizionale attrae molti giovani che, come me quando lo conobbi la prima volta, non ne avevano mai sentito parlare prima, e magari non sono nemmeno cattolici o cristiani tout court).
Un esempio di questi aspetti è il reiterarsi in breve tempo (un anno in luogo dei tre della liturgia riformata da Paolo VI) di una liturgia ricca e varia, ma sempre uguale in una danza cosmica attorno al sole che è Cristo[1]: tutti gli anni so ormai in anticipo quali testi verranno cantati in chiesa a Pasqua, a Natale, quella tale domenica della quaresima o dell’avvento, conosco ormai a memoria – gli anglofoni direbbero, con più suggestiva espressione, a cuore: by heart – le antifone della messa, la loro musica gregoriana, ed il loro rapporto con la pericope scritturale[2], conosco quali salmi sono cantati o recitati nell’ufficio in quella data ora e in quel dato giorno della settimana – il salterio essendo ripartito sue sette invece che su ventuno giorni – quali sono le lezioni dei mattutini ed i loro responsori. Questo non per dire che conosco a memoria i libri liturgici (non è vero, anche se molte antifone effettivamente le ricordo), ma che questa costante ripetizione mi permette di vivere ed essere immerso in una liturgia che diventa presto parte dello stesso respiro della mia anima, che si fa carne e sangue, che è veramente parte della mia vita ed una parte famigliare, riconosciuta, amata: vivo attraverso l’anno liturgico nello stesso modo in cui, percorrendo una strada che mi sia abituale fin dalla nascita, riconosco ogni cantone, ogni campanile, ogni albero, stagno o roggia che incontro.
Un altro esempio è quello che nel bel libro del 1990 scritto dal musicista cattolico americano Thomas Day, Why Catholics can’t sing[3] l’autore chiama “l’accadere del rito”[4]: esso è oggettivo ed impersonale nel suo avere luogo, presente davanti ai miei occhi nel presbiterio illuminato, non dipende dalla mia volontà, dalle mie preferenze, dalla mia partecipazione (è ovvio, come ha appena letto, che vi partecipo eccome, ma esso avverrebbe lo stesso, anche se io non ci fossi, anche se radicalmente io non fossi: una sensazione simile non mi è mai capitata col rito nuovo, pur sapendo che anch’esso è liturgia e, metafisicamente, ha gli stessi caratteri di oggettività di quello antico). In questa liturgia indipendente e libera dalle nostre umane miserie intuisco la partecipazione della Chiesa trionfante, degli angeli e dei santi, e la comunione con tutta la Chiesa militante diffusa nel mondo[5]».
(di F.Righini)
Versione in inglese dell'articolo: QUI
NOTE
[1] Questo è messo in risalto dall’incentrare l’intero procedere della liturgia in una rivoluzione della terra attorno all’astro lucente, in un solo anno solare, invece che in tre, una modifica resa necessaria dalla pretesa di una maggiore ricchezza scritturale, ma che rende difficile la ruminatio, per dirla con gli antichi monaci benedettini, dei testi sacri i quali rischiano di affollarsi troppo numerosi nella mente del fedele e finanche del chierico, e scardina in modo arbitrario quel principio simbolico per il quale microcosmo e macrocosmo si corrispondono riassunti nell’alfa e omega che è Cristo glorioso: il corso del cosmo non corrisponde più a quello della celebrazione, il disporsi dei corpi e delle anime nel rito non trova più la propria rispondenza e risonanza nel procedere delle stagioni, l’opus Dei-liturgia viene separato dall’opus Dei-creazione. Cfr su questi temi le tre Note sopra la liturgia – in particolare la seconda - di Cristina Campo (edizione recente: Cristina Campo, Sotto falso nome, Milano, Adelphi, 1998, pp. 129-135), ed il breve ma suggestivo libretto del grande musicologo svizzero Marius Schneider, Singende Steine (edizione italiana recente: Marius Schneider, Pietre che cantano, Milano, SE, 2005).
[2] Cfr. Fulvio Rampi, Del canto gregoriano, Dialoghi sul canto proprio della Chiesa, a cura di Maurizio Cariani e Fabrizio Lonardi, Milano, Rugginenti, 2006, pp. 46-59.
[3] Thomas Day, Why Catholics can’t sing, The Culture of Catholicism and the Triumph of Bad Taste, New York, Crossroad, 1990.
[4] Mi sia consentita un’ampia citazione del testo stesso: «Roman Catholicism used to know all about the idea of letting liturgy be liturgy. (Like the Orthodox, it knew how to make “the people” feel that they were actors on a cosmic theater set.) But the church is rapidly moving away from this way of doing things to a system which tries to appease each constituency and subconstituency within “the people.” In other words, it is moving away from a ritual which simply takes place (the historic method) to something that is presented to a constituency. The tehologians may say otherwise, but members of the laity have the impression that, in the “new” Mass, the priest, musicians, and assistants seem to be presenting a show at the congregation. Let me give the reader two “pictures” which clarify this important distinction between the event which “takes place” and the one which is “presented to” a congregation. In the 1950s I attended the somber Tenebrae service during Holy Week in Philadelphia0s Catholic cathedral. A choir of seminarians, seated in the front of the church, elegantly chanted one Latin psalm after another, without accompaniment. Now and then, a priest would appear, beautifully chant one of the readings (again, in Latin), and then disappear into the sacristy. Aside from seminarians, there was a total of about six members of the laity in the congregation. The time of day was inconvenient for most people; the cathedral had made almost no effort to publicize Tenebrae or explain it. But nobody worried about the small “turnout.” Nobody was embarrassed. Liturgy of all sorts just “was,” whether two people were there or two hundred. My second picture takes us to a large urban unviersity. I was strolling past the university’s large chapel and heard some impressive music coming from it. I decided to follow the sounds to their origin. There, inside the chapel, I beheld a robed and paid choir of about twenty, under the direction of the finest organist within a radius of a hundred miles. As I stood there at the entrance of the edifice, I froze in a mild form o terror, because the five ro so clergymen who were conducting this interdenominational service were all intensely staring at me with a mixture of rage and hope. I was the third member of a congregation of three and my toes were curling. Tenebrae “took place.” The interdenominational service was “presented to” a congregation. In the first event, everybody, including the six laypeople in the cavernous church, was part of an action which moved forward, in one direction. In the second event, the service moved toward the congregation, which was not there.» (op. cit., pp. 80-81).
[5] Non ho citato il collegamento evidente a tutti – proprio a tutti, persino agli atei, da quelli che firmarono i famosi appelli di Una Voce e della Latin Mass Society negli anni sessanta del secolo scorso al noto autore francese Michel Onfray, che ha recentemente pubblicato sul Figaro una apologia del rito tradizionale dal suo punto di vista di non credente – fra liturgia latina e civilizzazione occidentale: nella musica, nella poesia, nelle arti figurative. Anch’esso mi collega, seppure in maniera meno mistica, alle innumerevoli generazioni cristiane che mi hanno preceduto, e più specificamente al meglio della loro cultura. Saper di avere a disposizione “nei propri forzieri” i più alti pinnacoli della civiltà occidentale, e tuttavia non poterli offrire all’altare di Dio: questo sarebbe orribile ma esula dall’essenza della liturgia in sé e per sé.
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