lunedì 24 febbraio 2020

Un'altra finestra sul (buio?) Medioevo.. (n.14)


Giudizio Universale da Santa Maria del Casale (Brindisi), 
XIV secolo.

(photo by Santi Italogreci)


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Santa Maria del Casale sorge in bella posizione, isolata e solitaria, nella campagna brindisina. Una lingua di mare la separa dal centro di Brindisi. Il vicinissimo aeroporto l’ha paradossalmente preservata dal rischio di essere ingoiata dalla dilagante urbanizzazione. La visita della chiesa è appagante per gli appassionati d’arte che possono ammirare l’esteso ciclo di affreschi che ne riveste l’interno. E al top si colloca la grande visione del Giudizio universale che Rinaldo da Taranto ha affrescato nel 1319 sulla controfacciata. I modelli e le geometrie sono ancora quelli del canone di Bisanzio, ma qui e là si colgono guizzi di novità che l’avvicinano ai gusti occidentali. La visione del giudizio si articola lungo quattro fasce orizzontali. La prima fascia in alto è dedicata al tribunale celeste. La seconda fascia, più movimentata, racconta la risurrezione dei morti. Il portone centrale separa in due parti distinte le fasce inferiori dell’affresco. A sinistra sono descritti il corteo dei beati (terza fascia) e il Paradiso (quarta fascia). A destra domina invece l’Inferno, per sua natura regno del caos e dove Rinaldo ha cercato di riportare un po’ d’ordine.
Il tribunale celeste è costituito dai dodici apostoli che siedono a fianco del Cristo giudice. L’immagine di Gesù e degli intercessori Maria e Giovanni è in parte svanita. Restano tuttavia visibili il trono regale e l’esibizione delle piaghe dei chiodi. Gli apostoli siedono su una lunga panca finemente intagliata, con lo schienale rivestito di stoffa damascata e poggiano i piedi su un pavimento di ceramica composto di piccole tessere romboidali. Al tribunale celeste fanno corona gli angeli, suddivisi nei sette cori, ciascuno individuato dai tradizionali attributi.
Il secondo registro si articola su più scene. Al centro è l’etimasia: il varco a mandorla aperto nei cieli è sostenuto da sei angeli; sull’altare rivestito di panno fanno apparizione le arma Christi, la croce, la canna con la spugna dell’aceto e la lancia di Longino; ai lati dell’altare Adamo ed Eva sono inginocchiati con le mani aperte nella preghiera. La seconda scena è quella della fine del mondo: due angeli strappano il cielo con gli astri e le stelle chiudendo così il ciclo del tempo e segnando l’inizio dell’eternità. La terza scena vede protagonisti due angeli che suonano le trombe per risvegliare i morti e portarli al giudizio. La quarta scena è l’apertura dei libri che contengono la storia degli uomini e l’elenco delle opere, buone e cattive, che loro hanno compiuto. La quinta scena è quella della risurrezione dei morti, descritta con accuratezza: sono chiamate a rivivere le ossa aride stivate in due ossari circolari; i morti inumati nei sepolcri si risvegliano, sollevano i coperchi dei sarcofaghi ed escono festanti; risorgono poi i morti in mare, annegati nei naufragi delle navi e restituiti dagli squali che li hanno divorati; come pure risorgono i morti di terra, vomitati dalle fiere, dai mostri e dalle bestie feroci.
L’ordine logico del palinsesto del Giudizio universale prevede a questo punto la scena della pesatura delle anime, collocata abitualmente al centro del dipinto. Qui a Brindisi la psicostasia è stata invece spostata a destra per la mancanza di spazio, creando qualche problema di sovrapposizione tra i flussi divergenti dei beati e dei dannati. Il giudizio dei singoli risorti è affidato all’arcangelo Michele che utilizza una bilancia a due piatti per pesare le opere buone e cattive. L’arcangelo non veste qui l’armatura del capo delle milizie celesti ma il fastoso abito del dignitario bizantino. Il pittore ha risolto i problemi causati dal ridotto spazio a disposizione sintetizzando la figura dei risorti in piccole testine a forma di boccia. Le testine dei beati sono raccolte amorosamente dagli angeli dentro teli di lino e portate in cielo; altre testine ascendono solitarie in cielo come palloncini aerostatici sollevati dallo spirito divino.
Il Paradiso si presenta sotto due volti. Il primo è quello dal corteo dei beati che procede processionalmente verso il re dell’universo, costituito da quattro gruppi: il primo è quello delle donne sante tra cui spiccano le regine e le vergini consacrate; segue il gruppo dei religiosi dalla testa tonsurata; ci sono poi i vescovi e infine i martiri. La seconda immagine paradisiaca è quella dell’Eden, del primordiale paradiso terrestre, raffigurato come un giardino ricco di cespugli fioriti e di alberi simbolici come la palma, il fico, il melograno e il ciliegio; nel giardino siedono i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, con le anime dei beati raccolte nel grembo; secondo la pagina del vangelo di Luca l’anima festosa di del povero Lazzaro è accolta nel seno di Abramo e agita i fiori edenici. Il giardino è chiuso e la sua porta è vigilata da un cherubino armato di spada fiammeggiante, dopo la cacciata dei nostri progenitori a causa del loro peccato originale; ma ora, con il ritorno di Cristo, ristabilita l’alleanza, San Pietro riapre la porta e vi introduce Disma, il buon ladrone morto in croce sul Golgota, cui Gesù ha promesso la gioia del paradiso.
In opposizione al Paradiso è mostrata la visione dell’Inferno. Esso è alimentato da un fiume di fuoco che proviene dai piedi del Cristo giudice. Un gorgo del fiume infernale è il luogo di tormento del ricco Epulone, che invano chiede ad Abramo una goccia d’acqua per calmare l’arsura della lingua. I reietti condannati dalla bilancia di Michele, da singoli o in gruppo, vengono rudemente accompagnati all’inferno. In un caso è un enorme angelo sterminatore di colore rosso ad accanirsi con un forcone contro gli eresiarchi (Ario, Nestorio e Sabellio) e contro le religiose infedeli ai loro voti. Negli altri casi sono diavoletti alati, di colore scuro, a procedere alle operazioni di polizia penitenziaria. Ne fanno le spese peccatori di tutte le risme, senza differenze di rango e di status: si riconoscono re coronati e grassi abati, dediti ai vizi della superbia e della gola; ma anche un modesto taverniere viene punito per il suo vizietto di adulterare le bevande; mentre un’accidiosa coppia di “dormiglioni della domenica” viene snidata nel letto matrimoniale. Tre cubicula di un purgatorio stereometrico accolgono peccatori a diversi stadi di purificazione tramite il fuoco. Sul fondo dell’Inferno, assiso sul lago di fuoco, c’è un Lucifero incatenato, dal repellente volto di cinghiale, che coccola tra le mani il traditore per eccellenza, Giuda. Ai suoi lati spuntano dragoni affamati che si disputano la carne da macello offerta dai diavoli.
A sugello della composizione, nell’architrave della porta d’ingresso, si legge la firma dell’artista: Rinaldus de Tarento.


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